La tutela delle denominazioni d’origine dei prodotti agroalimentari ha una lunga storia in Italia così come negli altri paesi europei di cultura latina. Prima dell’entrata in vigore del regolamento (CEE) 2081/92[1] il quadro normativo italiano, al di fuori dei prodotti di maggiore tradizione (vino, formaggio e prosciutto), non era però molto definito (vedi anche Capitolo 1, § 3) e la molteplicità dei “segni di qualità” (marchi collettivi, marchi di qualità registrati presso il Ministero e denominazioni di origine) non ne garantiva la piena potenzialità in termini di efficacia promozionale. La pubblicazione del regolamento (CEE) 2081/92, fornendo un quadro normativo molto più definito e unico per tutti i prodotti e per tutto il territorio comunitario, ha offerto anche a prodotti minori come il miele la possibilità di beneficiare di un segno di qualità sicuramente noto, prestigioso e degno di fiducia.
Un esempio dell’efficacia di questo sistema ci può essere offerto dalla vicina Francia, dove un metodo analogo a quello definito dal regolamento (CEE) 2081/92 esisteva già da tempo. In questo paese, infatti, i prodotti alimentari e agricoli che devono la loro specificità all’origine geografica sono conosciuti ed apprezzati dal consumatore grazie alla denominazione AOC (Appelation d’origine controlé) gestita dall’Institut National des Appelation d’origine (INAO) con regole simili a quelle del regolamento (CEE) 2081/92. Altrettanto affermato nel campo delle denominazioni qualitative è il marchio di qualità “Label Rouge”. Non a caso in Francia alcuni gruppi di apicoltori si erano già orientati con successo verso questi sistemi di valorizzazione (AOC per i produttori della Corsica e dei Vosgi e Label Rouge quelli della Provenza), e il passaggio al sistema di protezione europeo non ha in sostanza cambiato le strategie di valorizzazione applicate.
In Italia il passaggio dal variegato panorama delle denominazioni nazionali alle DOP e IGP ha richiesto tempi relativamente lunghi. L’elemento maggiormente problematico è stato il passaggio della responsabilità del controllo, dai tradizionali Consorzi di tutela ad organismi certificatori terzi, gestiti secondo i criteri della norma EN 45000. Questo travaglio traspare dall’evoluzione dei provvedimenti nazionali per l’applicazione del regolamento (CEE) 2081/92, che sono giunti solo negli ultimi anni ad una definizione articolata e completa (vedi cap. 3, § 2.1.).
Per meglio interpretare la fase attuale, può forse essere utile ripercorrere le tappe iniziali dell’applicazione del regolamento (CEE) 2081/92. Nei primi 6 mesi successivi all’entrata in vigore del regolamento (luglio 1993 - gennaio 1994) è stata data agli stati membri la possibilità di presentare la domanda di registrazione con modalità abbreviata (a norma dell’art. 17) per i prodotti già tutelati da un sistema di protezione geografica a livello nazionale ovvero, nel caso dei paesi che non avessero tali sistemi, per le denominazioni geografiche sancite dall’uso.
L’Italia ha fatto ricorso a questa procedura per la registrazione di 150 prodotti, ottenendo il riconoscimento europeo, e quindi l’iscrizione al registro europeo delle DOP e delle IGP (regolamento CE 1107/96 e successive modifiche[2]), per 102 di essi, 48 dei quali usufruivano già di una protezione a livello nazionale. Nel gruppo iniziale di 150 prodotti si trovavano anche 4 mieli (Emilia-Romagna, Marche, Trentino e Valle d’Aosta), nessuno dei quali ha però ricevuto il riconoscimento. Solo per il “Miele dei colli delle Marche” è ancora attiva presso il MIPAF l’istanza di registrazione, mentre le altre domande sono state ritirate.
Complessivamente le domande giunte alla Commissione da tutti i paesi membri in quella prima fase sono state circa 1300, di cui 480 sono state accolte. Fra di esse compaiono anche 13 mieli DOP: Miel de Sapin des Vosges - Francia, Meli Elatis Menalou Vaniglia - Grecia, Miel luxembourgeois de marque nationale - Lussemburgo, nove denominazioni portoghesi e Miel de La Alcarria - Spagna.
Da quando è iniziata la procedura standard, i prodotti italiani che hanno ottenuto la registrazione sono solo 8, e in totale i prodotti europei protetti dal regolamento (CEE) 2081/92 sono attualmente poco più di 550 (vedi Appendice 1 C: elenco aggiornato a marzo 2001). Per il miele si è aggiunto ai 13 prodotti registrati con la procedura accelerata, una sola DOP: il “Miel de Corse – Mele di Corsica”. Siamo quindi ancora, per i prodotti che non godevano di una precedente protezione nazionale, in una fase iniziale di applicazione, sia a livello italiano che europeo.
L’Italia non ha ancora nessun miele DOP o IGP, ma esistono tre pratiche attive presso il MIPAF: “Miele dei colli delle Marche”, “Miele d’Abruzzo” e “Miele della Lunigiana”. Per quest’ultimo prodotto l’istruttoria è già più avanzata rispetto agli altri due, essendosi già svolta, nel febbraio 2001, la riunione di pubblico accertamento per il recepimento da parte del Ministero delle osservazioni e degli orientamenti della filiera produttiva interessata.
In questi ultimi 2 - 3 anni sono sempre più numerose le organizzazioni di produttori di miele che si stanno indirizzando verso questo strumento di valorizzazione. Da un lato il regolamento europeo 1221/97 (G.U.C.E., 1/7/97) sul miglioramento della qualità e della commercializzazione del miele ha fornito il necessario supporto economico ai gruppi di produttori che volevano mettere in evidenza, attraverso studi di caratterizzazione, la specificità del proprio prodotto. Dall’altra sono state chiarite le regole per la gestione delle denominazioni e per i controlli (Legge 526/99[3]) e le modalità di istanza di registrazione (Circolare MIPAF 28 giugno 2000[4]), rendendo quindi possibile intraprendere questa strada con un minore dispendio di tempo ed energie. Inoltre, la comparsa sul mercato di prodotti DOP e IGP di largo consumo e diffusione, ha immediatamente reso interessante agli occhi dei produttori l’uso di questo segno di qualità.
Il regolamento (CEE) 2081/92 definisce due tipi di indicazione territoriale:
- la denominazione d’origine per un prodotto originario di un luogo determinato la cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente all’ambiente geografico, comprensivo dei fattori naturali ed umani e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nell’area geografica delimitata;
- l’indicazione geografica per un prodotto originario di un luogo determinato di cui una determinata qualità, la reputazione o un’altra caratteristica possa essere attribuita all’origine geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengano nell’area geografica determinata.
Le differenze fra le due denominazioni sono quindi relative a due aspetti diversi: da un lato l’importanza del territorio nel determinare le caratteristiche del prodotto, essenziale ed esclusivo nelle DOP, e limitato a solo una parte delle caratteristiche o anche alla sola reputazione per le IGP; dall’altra la fase in cui ha origine il legame con il territorio, che nelle DOP riguarda tutti gli stadi produttivi e nelle IGP può invece essere relativo anche a una sola parte del processo.
Ad una prima impressione, le due denominazioni potrebbero sembrare diverse nel rigore applicativo, più severo per le DOP, più tollerante nelle IGP. In realtà il meccanismo di registrazione, controllo e difesa del consumatore è identico nei due casi e quindi i due tipi di indicazione devono essere considerate da questo punto di vista sullo stesso piano. Le differenze sono invece da ricercare soprattutto nel diverso grado di legame con il territorio, che assume per le DOP un valore maggiore e di esclusività: la DOP identifica un prodotto che non ha eguali e questa sua specificità, che si è originata in un territorio delimitato, non può essere riprodotta identica in nessun altro luogo. Nella IGP il legame con il territorio è sempre presente ma manca l’elemento esclusivo.
Inoltre, le parole utilizzate per indicare il tipo di legame con il territorio sembrano molto più vincolanti per le DOP (la qualità o le caratteristiche sono dovute all’ambiente geografico, comprensivo di fattori naturali ed umani), che per le IGP (una qualità può essere attribuita all’origine geografica). Ancora, per le DOP l’ambiente geografico è “comprensivo di fattori naturali ed umani”, per le IGP l’origine geografica non è meglio specificata.
In Italia, nella prima fase di applicazione del regolamento (CEE) 2081/82 è stata data invece una interpretazione delle differenze tra i due segni distintivi basata principalmente sul legame con il territorio durante le diverse tappe produttive. Si interpretava infatti che per i prodotti come formaggi e salumi, in cui il legame con il territorio può essere determinante in tutte le fasi produttive (territorio di allevamento degli animali, di trasformazione e di stagionatura), il segno distintivo dovesse essere la DOP, quando il disciplinare delimitava il territorio per tutte le fasi di lavorazione (Prosciutto di Parma, per esempio), l’IGP quando lo delimitava solo per una fase del processo (Bresaola della Valtellina). Nel caso invece dei prodotti non trasformati (carni, orto-frutticoli, miele), per i quali solo una fase del processo assume valore per la qualità del prodotto, si riteneva ammissibile solo l’IGP.
In effetti nella registrazione dei prodotti italiani secondo la via abbreviata (ai sensi dell’art. 17 del regolamento CEE 2081/92) la distribuzione delle DOP e delle IGP riflette questo orientamento. Non così però quello dei prodotti di altri paesi della Unione Europea, dove l’interpretazione è stata diversa, basata soprattutto sulla diversa importanza del legame con il territorio nelle due denominazioni. Ad esempio i prodotti ortofrutticoli italiani iscritti nel registro delle designazioni protette sono quasi tutti IGP, mentre quelli di altri paesi, sono iscritti come DOP o IGP più o meno nella stessa proporzione. L’attuale orientamento del Ministero delle politiche agricole e forestali italiano è oggi più in linea con quello degli altri paesi della Unione Europea.
In Francia, dove il sistema di protezione nazionale era già molto ben affermato presso il consumatore, l’applicazione del regolamento (CEE) 2081/92 ha preso una strada diversa rispetto ad altri paesi dell’Unione Europea: il sistema nazionale viene mantenuto e ai segni distintivi noti (AOC e Label Rouge) vengono affiancati quelli definiti a livello europeo. Così il prodotto che ottiene la AOC nazionale può poi presentare la domanda di registrazione come DOP (AOP, in francese), mentre quello contraddistinto dal Label Rouge può presentarsi per la registrazione come IGP.
Per il miele si può definire più adatto un segno rispetto all’altro? In teoria, se è possibile dimostrare che le caratteristiche del prodotto non sono riproducibili in nessun altro territorio, in quanto traggono origine proprio dai fattori ambientali, allora è senz’altro indicata la DOP; se invece questa specificità è presente, ma non esclusiva, allora sembrerebbe più adatta l’IGP. Queste indicazioni si prestano a una gamma di sfumature interpretative che rendono la separazione fra le due denominazioni meno netta di come enunciato. La “specificità” del prodotto può, ad esempio, consistere solo nella presenza di particolari forme o associazioni polliniche, oppure riguardare anche le caratteristiche fisico-chimiche e organolettiche del miele. Secondo l’interpretazione più rigorosa dovrebbe essere proprio quest’ultimo elemento a caratterizzare una DOP, in quanto apprezzabile e riconoscibile direttamente dal consumatore.
Un requisito indispensabile nella definizione della DOP è che l’intero processo produttivo abbia luogo all’interno dell’area delimitata. Se è comprensibile che questo requisito abbia valore per i prodotti trasformati, quali salumi o formaggi, lo è molto meno nel caso di un prodotto non lavorato: non sembra che possa fare una grande differenza se il miele viene raccolto, estratto e confezionato nell’area delimitata, piuttosto che raccolto in quell’area e poi estratto e invasettato altrove. Di fatto le caratteristiche del miele sono determinate soprattutto dal nettare bottinato dalle api (e quindi dalle caratteristiche vegetazionali dell’area), tuttavia anche elementi che fanno parte dei fattori umani che, insieme a quelli naturali, costituiscono l’ambiente geografico, possono contribuire, seppure in misura minore, alla specificità del prodotto: le pratiche apistiche adottate (tipo di arnia, nutrizione, raccolti precedenti, spostamenti nel corso dell’anno, tecniche di conduzione e protezione dalle avversità), le caratteristiche dell’ape utilizzata e tutte le modalità produttive (raccolta, estrazione, eventuali trattamenti, conservazione e invasettamento). Per giustificare e dare significato a una DOP sul miele occorre quindi estendere anche a questi fattori produttivi la ricerca degli elementi di specificità.
La differenza tra le due designazioni geografiche non è invece in relazione, come a volte è stato interpretato, con il divieto o meno di effettuare nomadismo all’esterno dell’area delimitata.
Considerando i vincoli imposti, si può immaginare che le condizioni idonee a definire una DOP si possano ottenere solo piuttosto raramente sul nostro territorio, in aree dotate di particolarità floristiche, vegetazionali o di uso stabile del territorio non comuni. Ma poiché tale denominazione è comunemente ritenuta più prestigiosa, è comunque opportuno valutare la possibilità di raggiungere questo obiettivo.
Riassumiamo quindi i diversi casi che si possono presentare, nell’ambito della produzione di miele, in riferimento ai requisiti distintivi tra DOP e IGP. Si possono prospettare quattro possibilità:
1. Legame “esclusivo” con il territorio e intero processo nella zona delimitata (DOP): è il caso di aree isolate, con particolarità produttive tali da permettere la produzione di mieli totalmente specifici e, al tempo stesso, sufficientemente ampia da permettere lo sviluppo di una apicoltura forte e ugualmente dotata di specificità. Il caso emblematico di questa situazione è la DOP Miel de Corse - Mele di Corsica, in cui l’area delimitata coincide con l’intero territorio insulare. La giustificazione della DOP si basa su:
- specificità della flora originaria, ricca di endemismi e ben conservata nella maggior parte dell’isola;
- particolare uso del territorio, diverso rispetto al resto d’Europa, in quanto poco popolato, fin dai secoli passati, con assenza di grandi insediamenti urbani e industriali e agricoltura limitata a poche aree dell’isola;
- specificità dell’apicoltura locale, con un ecotipo di ape particolare e pratiche di nomadismo a breve raggio, di carattere quasi esclusivamente altitudinale;
- isolamento, che elimina il problema delle produzioni limitrofe simili e del nomadismo tra interno ed esterno dell’area delimitata.
2. Legame “esclusivo” con il territorio e processo produttivo parzialmente esterno alla zona delimitata (IGP): è il caso di aree isolate, con particolarità produttive tali da permettere la produzione di mieli totalmente specifici ma, al tempo stesso, non sufficientemente ampie e costantemente produttive da permettere in loco lo sviluppo di una apicoltura con la forza necessaria alla registrazione e al mantenimento di una DOP. Può trattarsi di aree ad altitudine elevata o con clima siccitoso, dove la sopravvivenza degli alveari non è possibile nell’arco di tutto l’anno; o di produzioni aleatorie, come nel caso dei mieli di melata delle foreste di abete.
3. Legame “relativo” con il territorio e intero processo nella zona delimitata (IGP): questa è probabilmente la condizione più comune per i gruppi di produttori di miele che ambiscono a una denominazione protetta a livello comunitario. È quanto si verifica in zone discretamente ampie e produttive, dotate di produzioni costanti e caratteristiche, ma, proprio per l’ampiezza dell’area considerata, senza quegli elementi di esclusività che potrebbero aprire la strada alla DOP. Può essere il caso di denominazioni di ambito regionale. Per esempio in Toscana è in corso uno studio di caratterizzazione dei mieli della regione da parte dell’agenzia regionale di sviluppo agricolo (ARSIA) che punta a una IGP Toscana, anche in virtù del valore promozionale che il nome di questa regione ha in tutto il mondo e in analogia con una analoga IGP per l’olio già riconosciuta.
È da notare che questa scelta non preclude la possibilità definire delle DOP in sottoterritori dotati di particolari caratteristiche che rendano possibile questa strategia. Proprio nel caso dell’olio, la Toscana, oltre alla IGP regionale, ha una DOP “Chianti Classico”.
Quando le risorse sono limitate e occorre scegliere una sola strategia, non è detto che optare per una delimitazione ristretta, scegliere cioè una DOP relativa a una produzione più specifica ma limitata, di una piccola area e di pochi produttori, sia una alternativa più vantaggiosa rispetto a una IGP di un territorio più vasto, che può coalizzare una schiera molto più ampia di interessi: va ricordato che la capacità di affermarsi di una denominazione dipende anche dalla forza economica espressa dai produttori che la utilizzano.
4. Legame “relativo” con il territorio e processo produttivo parzialmente esterno alla zona delimitata (IGP): può essere il caso di piccole aree di grande o grandissimo richiamo in quanto note per altri motivi (aree di interesse naturalistico o turistico, aree protette, note per altri prodotti agricoli o alimentari già molto famosi che possano avere una qualche attinenza con il miele), con produzioni caratteristiche ma non esclusive per via della ridotta superficie del territorio e con limitata realtà produttiva o impossibilità (come in molte aree protette) di ospitare stabilmente aziende apistiche.
Dopo questa breve rassegna, dobbiamo sottolineare che la scelta tra DOP e IGP non deve essere motivata dalla volontà di limitare la denominazione ai produttori con azienda localizzata all’interno della zona di bottinatura, ma deve essere, innanzi tutto, basata su una giustificazione tecnica coerente, cioè su differenze dimostrabili tra il prodotto ottenuto da apicoltori con sede aziendale nella zona e quelli con sede diversa. D’altra parte, la tentazione di utilizzare la delimitazione del territorio come mezzo strumentale per impedire a produttori di altre zone di sfruttare pascoli pregiati o limitare la corretta concorrenza è controllata dal diritto di opposizione alla registrazione da parte tutti i soggetti interessati, ad esempio da parte dei produttori esclusi.
Anche nel caso in cui la DOP possa essere giustificata dal punto di vista tecnico, l’opzione non è comunque scontata. A favore della DOP ci può essere la sensazione che questo segno di qualità abbia una maggior presa sul consumatore, ma questo, al momento attuale, non è ancora dimostrato, né prevedibile.
Non c’è quindi una risposta unica alla domanda “DOP o IGP?”. In ogni caso la scelta della denominazione da utilizzare sarà determinata dallo studio di caratterizzazione e dalla stesura del disciplinare che ne consegue. Alle motivazioni tecniche potranno aggiungersi considerazioni di opportunità politica od economica, che sono d’altronde previste dallo stesso regolamento (CEE) 2081/92: non a caso uno degli obiettivi di queste forme di promozione è proprio quello di garantire i redditi degli agricoltori delle zone svantaggiate o periferiche, senza mai dimenticare però il diritto del consumatore a essere correttamente informato. Questo ambito di discrezionalità è il campo d’azione dell’associazione di produttori che propone la denominazione.
L’innesco di un processo di valorizzazione complesso come la costituzione di una DOP o IGP richiede la convergenza di volontà e risorse molto diverse, per un obiettivo che può apparire lontano, non ben definito e tutt’altro che sicuro. La fase iniziale, quella di reperimento delle volontà e delle risorse, può quindi richiedere più tempo e più maturazione di tutte le altre. In questo processo esistono tre ruoli principali.
- La produzione. È dai produttori che deve scaturire la volontà di attivare un processo di valorizzazione del prodotto: devono essere disposti ad investire il loro tempo, le loro competenze e risorse economiche in un progetto che porterà, auspicabilmente e in un futuro forse non tanto vicino, benefici a loro stessi ma anche ai colleghi (amici e concorrenti). Il progetto di valorizzazione è un atto collettivo, in cui ogni decisione deve essere condivisa e questo porta inevitabilmente a discussioni, scontri, mediazioni e rinunce agli interessi personali in favore di quelli collettivi. La responsabilità delle decisioni è comunque del gruppo dei produttori, in quanto gli altri componenti del processo hanno solo un ruolo di consiglieri. I produttori non devono necessariamente essere già organizzati in associazione, anche se all’interno di un’aggregazione già strutturata l’iniziativa è facilitata, essendo già codificate le modalità decisionali (assemblea dei soci, consiglio). Può anche costituirsi un gruppo ex-novo con l’obiettivo della registrazione della denominazione: questo può agevolare il superamento di schieramenti preesistenti ed essere il primo passo verso la creazione di un consorzio di tutela.
- La ricerca. È attraverso la ricerca e la sperimentazione che è possibile mettere in evidenza gli elementi di specificità delle produzioni da valorizzare. In Italia l’esperienza nel campo degli studi di caratterizzazione geografica del miele non manca (Capitolo 1, § 5). È opportuno progettare studi collaborativi per poter usufruire di tutti i tipi di competenze necessarie allo svolgimento della ricerca. Questo punto è più estesamente sviluppato nel § 4 di questo stesso capitolo.
- I tecnici. Il meccanismo di valorizzazione richiede competenze specifiche che non sono proprie né della produzione né della ricerca. La conoscenza delle norme specifiche, le modalità di redazione di un disciplinare, di progettazione dei sistemi di autocontrollo, controllo e verifica, rientrano nel campo specifico di competenza degli organismi di controllo. A volte i tecnici delle associazioni di produttori o dei servizi di sviluppo agricolo o degli organismi di assistenza tecnica che coordinano il progetto di valorizzazione possiedono conoscenze sufficienti, ma in generale per un’impostazione corretta della documentazione è consigliabile che il gruppo di lavoro ricorra a specifiche collaborazioni, ad esempio nell’ambito degli stessi organismi di controllo.
L’iniziativa di valorizzazione dovrebbe, come si è detto, partire dai produttori, ma capita più spesso che essa scaturisca da uno studio di caratterizzazione effettuato a livello di ricerca o da azioni promozionali intraprese a livello dei servizi di sviluppo agricolo. In tutti i casi, se l’obiettivo è effettivamente quello di ottenere il sistema di valorizzazione più adatto alla realtà produttiva della zona, è importante che tutte e tre le componenti sopra citate siano coinvolte.
Nelle fasi iniziali, lo scoglio più difficile da superare è forse la comunicazione tra le diverse componenti coinvolte nel progetto: è indispensabile che esse si confrontino e che le informazioni passino da una competenza all’altra. Il campo del confronto è soprattutto il trasferimento dei contenuti dello studio di caratterizzazione al disciplinare di produzione, in cui sono necessarie le competenze di chi ha fatto lo studio, di chi è in grado di tradurlo in un documento di lavoro che definirà la specificità del prodotto e i vincoli produttivi e di chi questo documento di lavoro dovrà usarlo tutti i giorni per tutelare e valorizzare il proprio prodotto. Le discussioni che ne scaturiscono sono indispensabili perché vengano presi in considerazione tutti gli aspetti da inserire nel disciplinare.
Il reperimento delle risorse finanziarie non è sempre la difficoltà maggiore, in quanto le sfaccettature di questo tipo di progetti sono numerose ed è per questo possibile ricorrere a diverse fonti per le varie fasi del progetto (studio, messa a punto del disciplinare, avviamento del meccanismo di tutela, promozione del prodotto). In particolare nelle zone rurali svantaggiate sono molti gli ambiti di finanziamento pubblico che hanno tra i propri obiettivi proprio la valorizzazione dei prodotti locali. Piuttosto che puntare ad ottenere un unico finanziamento per l’intero percorso progettuale, con i rischi connessi al mancato raggiungimento dell’obiettivo, è in genere più conveniente attivare progetti parziali per il perseguimento di obiettivi intermedi più facilmente raggiungibili. I servizi locali di sviluppo agricolo (Regione, Provincia o Comunità Montana) possono fornire le informazioni relative alle possibilità di finanziamento erogati dai servizi stessi o relativi a progetti europei (Leader, Interreg, regolamento CE 1221/97).
Deve comunque essere chiaro ai produttori che se le fasi di progettazione, ricerca e avviamento possono essere sostenute in maniera consistente da risorse pubbliche, non così la successiva fase di vera e propria applicazione, in cui il processo di valorizzazione deve potersi mantenere grazie a un rapporto costi/benefici favorevole.
Questa parte del processo richiede competenze proprie delle strutture di ricerca e sperimentazione che operano nel campo dell’apicoltura. In Italia è stato messo a punto un protocollo armonizzato per condurre gli studi di caratterizzazione geografica del miele finalizzati alla definizione di DOP o IGP. Sulla base di un modello iniziale proposto da Sabatini et al. (1994), nell’ambito del Progetto Finalizzato AMA (Ape, Miele, Ambiente) finanziato dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali (Sabatini, 1999), è stata condotta una approfondita indagine collaborativa alla quale hanno contribuito sette Istituti di ricerca[5] che hanno rielaborato e integrato il documento iniziale, sperimentandolo in diverse aree del territorio nazionale. I risultati finora ottenuti sono presentati nella Parte II.
Il protocollo armonizzato per gli studi di caratterizzazione geografica del miele è descritto nei paragrafi seguenti.
Per la programmazione dello studio e per l'interpretazione dei risultati è indispensabile reperire documentazioni e informazioni relative all'ambiente e agli aspetti produttivi:
- estensione e limiti dell'area considerata;
- caratteristiche fisiche e climatiche;
- caratteristiche vegetazionali, con particolare riferimento alle specie di interesse apistico;
- aspetti agronomici in riferimento alla loro influenza sulle produzioni studiate;
- cartografia, su supporto cartaceo o elettronico, in particolare carte tematiche vegetazionali, fitosociologiche, di uso del suolo, forestali.
- numero, dimensioni, struttura e distribuzione sul territorio degli impianti apistici; dati quantitativi e qualitativi sui mieli e sulle tecniche apistiche suscettibili di influenzarne le caratteristiche (apicoltura nomade o stanziale, metodiche di conduzione, estrazione ecc.).
Tali materiali e informazioni possono essere in parte desunti da fonti bibliografiche, in parte reperiti presso istituzioni, strutture e servizi territoriali (Regione, Provincia, Servizi di sviluppo agricolo, Comunità Montane, Enti Parco, Università, ASL, Organizzazioni dei produttori).
È poi necessario incontrare i produttori della zona oggetto di studio, per coinvolgerli nella ricerca, garantirsi la loro collaborazione e valutare il loro interesse alla valorizzazione del prodotto locale, oltre che per completare la raccolta di informazioni. È opportuno che lo scambio con i produttori prosegua in tutte le fasi dello studio, sia per raccogliere eventuali informazioni aggiuntive utili alla ricerca o particolari istanze dei produttori, sia per presentare i risultati via via conseguiti, dai quali potranno scaturire suggerimenti per orientare o migliorare la produzione.
La raccolta dei dati floristici e vegetazionali deve essere completata con sopralluoghi per la verifica delle fioriture presenti, da effettuarsi lungo percorsi prestabiliti in relazione alle zone vegetazionali, con periodicità da scandire in funzione delle dimensioni e della varietà floristica della zona (in media quindicinale). Per la registrazione delle fioriture si suggerisce di utilizzare la scheda messa a punto dal gruppo di lavoro del progetto AMA sulla base degli studi di Simonetti et al., 1989. La scheda è riprodotta nel prospetto1.
Da questa fase di studio possono scaturire le prime considerazioni sulla possibilità o meno di giungere ad una caratterizzazione dei prodotti in questione e sulla conseguente opportunità a proseguire la ricerca.
In base alle informazioni raccolte nel corso dello studio preliminare , viene programmata la raccolta dei campioni di miele, tenendo conto dei tipi prodotti nella zona (definiti in base all'origine botanica, alle zone vegetazionali, al periodo di produzione e alle tecniche apistiche impiegate) e dell'importanza quantitativa delle singole partite. Ai fini della caratterizzazione geografica i campioni dovranno preferibilmente corrispondere a partite conferite al commercio, ma ai fini di uno studio iniziale più dettagliato potrà essere utile richiedere campioni di singoli apiari prelevati direttamente alla smielatura.
Ogni campione, fornito direttamente dal produttore, è accompagnato dai dati necessari ad una corretta interpretazione dei risultati d'analisi (località di produzione, data di smielatura, tecniche di apicoltura adottate, probabile origine botanica, quantità rappresentata dal campione). Per la registrazione di questi dati. si suggerisce di utilizzare la scheda messa a punto dal gruppo di lavoro del progetto AMA, riprodotta nel prospetto 2.
Il campionamento dovrà essere ripetuto per almeno due anni. Nel caso si riscontrassero variazioni importanti tra un anno e l'altro, e comunque nel caso di terreni a vocazione agricola, a causa dei possibili cambiamenti di indirizzi colturali, si dovrà considerare la necessità di proseguire ulteriormente, fino a giungere a una precisa identificazione dello spettro base, caratteristico della zona.
È comunque indispensabile prevedere una periodica verifica dei parametri di caratterizzazione, per tenere conto delle variazioni che possono intervenire successivamente alla conclusione della ricerca (clima, vegetazione, agricoltura, tecniche apistiche).
Per quanto riguarda la fase analitica, tutti i campioni vanno sottoposti ad analisi melissopalinologica qualitativa e quantitativa secondo i metodi di Louveaux et al. (1978), utilizzando la nomenclatura suggerita da Persano Oddo e Ricciardelli D’Albore, (1989). Il conteggio viene effettuato in modo da poter esprimere la frequenza dei tipi pollinici in percentuale e in modo da assicurare il reperimento del maggior numero di taxa.
Prospetto 1
SCHEDA PER IL RILEVAMENTO DEI DATI FLORISTICI |
|||||||||||||
DATA |
Specie O |
Località |
Ambiente |
Momento fenologico |
Copertura |
Intensità. visite |
API/m2 (m3) |
Nettare |
Polline |
Colore pallottole |
Colore polline |
Melata |
NOTE |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Legenda
AMBIENTE |
1.
legnose non ornamentali 2.
legnose ornamentali 3.
ripe e greti 4.
macchia submediterranea 5.
siepi e vigne 6.
cespuglieti 7.
boschi igrofili |
8.
boschi termofili 9.
boschi montani 10.
coltivate agrarie 11.
erbacee ornamentali 12.
laguna, dune 13.
prati e pascoli |
14.
bordi stradali, campi 15.
fossi, acque 16.
infestanti 17.
incolti e ruderali 18.
prati aridi 19. rocce |
MOMENTO FENOLOGICO |
1.
inizio fioritura |
2.
piena fioritura |
3.
fine fioritura |
COPERTURA |
1.
singola o sporadica 2.
rara 3.
fino al 20% |
4.
fino al 40% 5.
fino al 60% |
6.
fino al 80% 7.
fino al 100% |
INTENSITA’ VISITE |
1.
bassissima 2.
bassa |
3.
media 4.
alta |
5.
altissima |
NETTARE |
1.
non raccolto 2.
raccolta scarsa |
3.
raccolta media 4.
raccolta abbondante |
5.
dato non rilevato |
POLLINE |
1.
non raccolto 2.
raccolta scarsa |
3.
raccolta media 4.
raccolta abbondante |
5.
dato non rilevato |
MELATA |
1.
non presente |
2.
presente ma non raccolta |
3.
raccolta |
Prospetto
2
CARATTERIZZAZIONE GEOGRAFICA (IGP) DEI MIELI DI: (zona)............................................
Nota: Il campione deve essere conferito in vaso di
vetro da 500 g (non usato precedentemente) provvisto di un’etichetta con il
nome del produttore e il numero. Dal momento del confezionamento il campione
deve essere conservato al riparo dalla luce e da fonti di calore.
La scheda potrà essere compilata dalla persona
incaricata del prelievo dei campioni, o a cura di un’associazione o
organizzazione locale che funga da tramite con l’apicoltore.
Campione n .___________________________ Data _______________________________
Dati relativi al produttore:
Nome e cognome______________________________________________________________
Indirizzo: ____________________________________________________________________
C.A.P .____________ Città ______________________ Provincia ______________________
Telefono (ed eventuale fax) _____________________________________________________
Associazione _________________________________________________________________
Tipo di attività (hobbista, part-time, professionista______________________________________
Dati relativi
alla conduzione apistica
Tipo di arnia__________________________________________________________________
Tipo di conduzione (stanziale o nomade) ____________________________________________
Eventuale postazione precedente dell’apiario e periodo (*) ________________________________
Eventuale nutrizione (tipo e data) __________________________________________________
Dati relativi
alla località di produzione
Località di produzione __________________________________________________________
Altitudine ____________________________________________________________________
Caratteristiche vegetazionali (pascolo, bosco, seminativo, incolto...) ________________________
___________________________________________________________________________
Periodo di permanenza dell’apiario: dal __________________ al ________________________
Dati relativi al
miele
Data della smelatura ___________________________________________________________
Data della precedente smelatura __________________________________________________
Probabili sorgenti nettarifere _____________________________________________________
Tipo di miele presunto (barrare la casella): r uniflorale di __________________r multiflorale
Quantità rappresentata dal campione _______________________________________________
Note ______________________________________________________________________
_____________________________________________________________________
Compatibilmente con le risorse disponibili, devono essere effettuati altri controlli analitici per completare la valutazione dei campioni, sia dal punto di vista della qualità che dell’origine botanica. Si consigliano almeno le seguenti:
- per la valutazione qualitativa: analisi organolettica secondo le metodiche seguite nell’ambito dell’Albo Nazionale degli Esperti in Analisi sensoriale del miele (Persano Oddo et al., 1995), umidità e idrossimetifurfurale (Bogdanov et al., 1997);
- per a verifica della rispondenza, nel caso di mieli uniflorali: analisi organolettica, colore (Aubert et Gonnet, 1983) e parametri caratterizzanti (Persano Oddo et al., 2000).
Gli spettri pollinici bruti sono elaborati con idonei ausili informatici in maniera da mettere in evidenza le forme polliniche comuni alla maggior parte dei mieli studiati. Questo tipo di elaborazione viene condotta sia sui risultati complessivi che su quelli relativi alle diverse tipologie di miele identificate in fase di campionamento o nel corso delle analisi stesse (per esempio mieli con una prevalenza botanica o provenienti da sottozone o periodi produttivi diversi). Si ottengono così le "forme polliniche guida" e gli "spettri guida". I taxa ritenuti esclusivi dei mieli studiati sono considerati come "forme polliniche traccianti". Si ricercano ugualmente i campioni che si allontanano dallo schema di identificazione, in quanto non presentano né gli spettri guida né le forme polliniche traccianti. Gli spettri pollinici ottenuti sono confrontati con analoghe informazioni riguardanti mieli di altre zone geografiche per valutare le effettive possibilità di differenziazione.
I risultati delle analisi microscopiche sono inoltre rielaborati per ricavarne informazioni sull'importanza delle specie nettarifere. A tal fine gli "spettri nettariferi" sono interpretati alla luce delle informazioni derivanti dallo studio vegetazionale e dei risultati dell'analisi organolettica e fisico-chimica, tenendo conto dell’eventuale ipo- o iperrappresentatività delle forme polliniche rinvenute e della possibilità di inquinamento secondario.
La fase conclusiva dello studio deve portare alla compilazione, per ogni tipologia di prodotto, di uno schema identificativo contenente i parametri utili sia ai fini descrittivi, per la redazione del disciplinare e della relazione tecnica (elementi di riconoscibilità, originalità e costanza), che in vista del futuro controllo della designazione protetta (dati melissopalinologici, fisico-chimici e organolettici).
I risultati degli esami qualitativi evidenzieranno la presenza di eventuali difetti rilevabili all’analisi organolettica (irregolarità di cristallizzazione, presenza di impurezze, odori o sapori estranei, etc.) o chimico-fisica (elevato contenuto in acqua o HMF). Su questa base si potranno fornire agli apicoltori suggerimenti e indicazioni per migliorare le loro produzioni.
Per molti prodotti tipici, sopratutto quelli trasformati, il carattere tradizionale del legame con il territorio nasce anche da particolari pratiche produttive che si sono mantenute, evolvendosi e consolidandosi nel tempo, anzi, in alcuni casi il legame con il territorio è principalmente di carattere tradizionale. Ad esempio per alcuni salumi o formaggi le caratteristiche finali sono determinate, più che dalla materia prima, dal “saper fare” che viene applicato nelle fasi di trasformazione: pratiche antiche, tramandate di padre in figlio, talmente impregnate di storia e consuetudini da non essere esportabili.
Al limite, l’elemento di specificità può essere costituito proprio dalla reputazione che il nome geografico ha acquisito nel tempo, e il legame con il territorio può quindi essere dimostrato anche solo attraverso elementi di carattere storico, tradizionale e culturale.
Nel caso del miele, il legame con il territorio è rappresentato soprattutto dalla specificità della vegetazione della zona: quella spontanea, ma anche quella coltivata soggetta alle variazioni degli indirizzi colturali, che sono certamente legati al tipo di territorio, ma non necessariamente tradizionali (al limite, una specie di nuova introduzione che trovi condizioni particolarmente favorevoli al suo sviluppo, potrebbe diventare l’elemento caratterizzante di un miele assolutamente tipico, di nuova produzione).
In generale l’elemento ‘tradizione’ è meno determinante per i prodotti non trasformati, come gli ortofrutticoli, che possono essere specifici, legati al territorio, ma non necessariamente tradizionali, come nel caso di cultivar o varietà di recente selezione.
Se questo possa rappresentare un ostacolo all’attribuzione di DOP o IGP non è del tutto chiaro.
Nel regolamento (CEE) 2081/92 non è mai menzionato esplicitamente un carattere tradizionale del legame con il territorio. Ai prodotti con specificità dovuta alla tradizione è riservato, tra l’altro, un sistema di protezione e valorizzazione diverso, introdotto dal regolamento (CEE) 2082/92 (G.U.C.E., 27/7/92), gemello di quello del quale ci stiamo occupando, relativo alle attestazioni di specificità, cioè ai prodotti che vengono venduti con l’indicazione “Specialità Tradizionale Garantita - STG”.
Il regolamento (CEE) 2081/92, prescrive che le IGP debbano derivare una parte delle loro qualità dall’origine geografica, non meglio definita, e che le DOP debbano derivare le loro caratteristiche essenziali dall’ambiente geografico, comprensivo dei fattori naturali ed umani.
Se quindi un riferimento ai fattori umani c’è, sembra vincolante solo per le DOP. Non è però indicato espressamente che questi fattori umani debbano avere un carattere tradizionale e potrebbe quindi trattarsi di pratiche o usi specifici del territorio, ma anche moderni, che direttamente o indirettamente influenzano le caratteristiche del prodotto. Il fatto che tra i prodotti registrati come DOP dalla Grecia ci sia un’actinidia, frutto di recente introduzione in Europa, potrebbe convalidare questa interpretazione.
È però un fatto che la circolare del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali del 28 giugno 2000[6], nell’indicare la documentazione da allegare all’istanza di registrazione menziona espressamente una “relazione storica”, distinta da quella tecnica, e questa sembra un’esplicita richiesta di radici tradizionali.
La questione mantiene quindi un certo margine interpretativo e di opinabilità. Personalmente, nel caso del miele, riteniamo che la richiesta di dimostrare elementi tradizionali nel legame che un miele DOP o IGP ha con il suo territorio di origine non sia fondata, tuttavia, data la natura del prodotto, così anticamente radicato praticamente in tutti i contesti rurali, non sarà difficile ai promotori dell’istanza di registrazione raccogliere materiale per provare che anche questa componente del legame esiste.
La documentazione storica ha il fine di testimoniare che la produzione da valorizzare ha un carattere tradizionale e sono quindi utili a questo fine documenti che possano dimostrare che un prodotto con le caratteristiche o con la denominazione di quello che si vuole registrare esistevano in passato.
In alcuni rari casi si possono trovare testimonianze molto remote, di epoca classica, relative a caratteristiche del miele già rinomate nel mondo antico e ancora oggi presenti nel prodotto moderno: ad esempio il sapore amaro del miele sardo o la ricchezza aromatica del miele ibleo, ma in altri casi i riferimenti antichi testimoniano solo la presenza e la diffusione dell’apicoltura nella zona considerata, mentre le caratteristiche del miele non sono paragonabili a quelle del prodotto odierno, per cambiamenti sia nelle tecniche produttive, sia nella vegetazione.
Traccia delle produzioni locali originarie si trova comunemente nelle ricette tradizionali. Molto più facilmente reperibili sono le testimonianze relative agli ultimi cento anni: citazioni in testi o riviste, materiale promozionale, etichette, copie di documenti commerciali. Considerata la rapidità di evoluzione nelle abitudini alimentari, possono già essere considerati tradizionali riferimenti che risalgono a 20-25 anni addietro.
Questa fase non richiede particolari competenze tecniche e può quindi essere svolta da uno qualsiasi dei soggetti coinvolti nel progetto di valorizzazione, purché abbia accesso al materiale ricercato, che spesso è costituito da testi molto specifici, a volte antichi o rari, non sempre reperibili nelle biblioteche apistiche. Può essere fruttuosa una ricerca presso gli archivi di aziende apistiche o organizzazioni di produttori.
Data l’eterogeneità di questo materiale e la difficoltà di reperimento, è utile coinvolgere quante più persone possibili in questa “caccia al tesoro” e iniziare precocemente la ricerca, per aumentare le probabilità di imbattersi, anche in maniera più o meno casuale, nei possibili ‘reperti’.
La documentazione raccolta deve infine essere organizzata in una relazione storica, in cui i documenti originali possono essere allegati in copia o soltanto citati.
L’elaborazione del disciplinare rappresenta la fase in cui i contenuti emersi dallo studio preliminare e dallo studio di caratterizzazione vengono tradotti in impegni che i produttori assumono nei confronti dei consumatori.
Una volta costruito, il disciplinare sarà il documento più importante ai fini della valutazione dell’istanza di registrazione e, soprattutto, sarà “la legge” di riferimento nella gestione della denominazione protetta. Considerata l’importanza di questo documento è quindi indispensabile che la sua stesura veda coinvolte tutte le componenti e tutte le competenze, che devono collaborare per costruire un documento finale che tenga conto sia degli elementi scientifici e tecnici che di quelli produttivi, applicativi ed economici.
Il disciplinare deve essere redatto tenendo conto di alcune regole generali:
- Il disciplinare è un documento pubblico, soggetto a pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale da parte dell’Amministrazione Nazionale.
- Fa parte della documentazione trasmessa alla Commissione per la registrazione della denominazione (ne è l’elemento più importante). Non è quindi possibile apportarvi cambiamenti se non attraverso una procedura analoga a quella di registrazione. Tale documento deve per questo essere preparato con grande responsabilità e attenzione, evitando di introdurvi vincoli che possano essere soggetti a cambiamenti: per alcune prescrizioni, può essere consigliabile indicare nel disciplinare i criteri generali e rimandare il dettaglio delle norme a documenti più agili, non soggetti ad approvazione, (norme tecniche, regolamenti interni, procedure applicative).
- Il disciplinare è un documento sintetico, che deve contenere le indicazioni necessarie e sufficienti a definire il prodotto e a garantire la rispondenza alle caratteristiche di quanto immesso sul mercato. Come in tutte le norme, non sono ammissibili ambiguità; è invece possibile indicare dei criteri generali, che possono essere sviluppati e dettagliati nei documenti applicativi.
- Il disciplinare è un documento volontario che viene applicato in un contesto di norme obbligatorie: esso non può quindi introdurre deroghe a quanto obbligatorio per legge e d’altra parte è totalmente inutile (e può essere controproducente) ribadire tali obblighi nel testo del disciplinare.
- Il disciplinare verrà applicato non solo dai produttori, ma anche dall’organismo di controllo, che ne farà una lettura in linea con i criteri contenuti nelle norme EN 45000. Questo significa che ogni criterio introdotto nel disciplinare rappresenta un vincolo soggetto a verifica attraverso puntuali prove documentali o analitiche. È quindi privo di senso stabilire prescrizioni che non siano verificabili in maniera obiettiva e inequivocabile e comunque per ogni vincolo introdotto dovranno essere valutati attentamente, oltre al significato per il prodotto, anche le ripercussioni in termini di controllo. Questo è il motivo per cui è indispensabile coinvolgere nella stesura o nella revisione del disciplinare anche i tecnici degli organismi di controllo (vedi questo Capitolo, § 3).
L’articolato del disciplinare deve seguire un criterio preciso, fissato dall’art. 4, paragrafo 2 del regolamento (CEE) 2081/92, che prevede 9 elementi. Nelle pagine che seguono questi elementi sono analizzati dettagliatamente. All’inizio di ogni paragrafo è riportato tra virgolette, il corrispondente punto del regolamento, come anche ripreso della circolare applicativa del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali del 28 giugno 2000[7].
Come esempi di questo tipo di documento possono essere esaminati quello allestito per la domanda relativa al Miele d’Abruzzo, riportato nella Parte III e quello già pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale come proposta di disciplinare relativo al Miele della Lunigiana. (Appendice I B).
“a) il nome del prodotto agricolo o alimentare che comprende la denominazione di origine o l’indicazione geografica”.
Il nome del prodotto può essere costituito dal solo nome geografico (per esempio “Asiago”), dal nome del prodotto più il nome geografico (per esempio “Robiola di Roccaverano”), o anche da menzioni più complesse, come per esempio l’espressione bilingue “Miel de Corse – Mele di Corsica”. Il nome geografico può essere quello di una regione, di un luogo determinato o, solo in casi eccezionali, di un paese e deve designare il prodotto originario di tale zona. Possono essere considerate come denominazioni d’origine anche alcune denominazioni tradizionali (per esempio “Fontina”).
L’area geografica che dà il nome al prodotto non necessariamente deve coincidere con tutto l’areale di produzione, ma deve comunque essere quella in cui le caratteristiche di specificità si sono sviluppate ed essere comunque compresa all’interno dell’area di produzione attuale. Un esempio è il Pecorino Romano DOP, la cui area di produzione attuale comprende Lazio, provincia di Grosseto e Sardegna, anche se la maggior parte della produzione ha luogo oggi in quest’ultima regione.[8]
La scelta del nome quindi non è automaticamente determinata dalla delimitazione dell’area di produzione, né deve essere legata (secondo una rilettura attenta del regolamento e contrariamente a quanto spesso interpretato) ad un uso tradizionale della denominazione stessa. La scelta del nome va quindi ponderata attentamente, considerando le implicazioni che esso avrà, soprattutto a livello di impatto sul consumatore e sapendo che sarà proprio il nome del prodotto ad essere protetto dal meccanismo del regolamento (CEE) 2081/92. Su di esso dovranno concentrarsi gli sforzi promozionali dei produttori, in quanto rappresenta l’elemento di identificazione univoca del prodotto per il consumatore.
Nella redazione del disciplinare bisognerà fare attenzione a riportare il nome del prodotto nella esatta versione in cui si vorrà utilizzare, ad esempio sempre in associazione con la varietà botanica, legato a questa da un trattino, o da una preposizione, etc.
“b) la descrizione del prodotto agricolo o alimentare mediante indicazione delle materie prime, se del caso, e delle principali caratteristiche fisiche, chimiche, microbiologiche e/o organolettiche del prodotto agricolo o alimentare”.
Nel caso del miele la descrizione del prodotto consiste in una sintesi delle modalità produttive, poi riportate più estesamente in un successivo articolo e, soprattutto, della definizione del prodotto in termini di caratteristiche compositive, con particolare riguardo agli elementi di maggiore specificità e più legati al territorio d’origine, cioè le caratteristiche melissopalinologiche. Questi elementi, messi in evidenza dallo studio di caratterizzazione, devono essere tradotti in modo da essere utili alla definizione delle peculiarità del prodotto e a permetterne il controllo, introducendo anche elementi che permettano di identificare meglio il prodotto presso il consumatore e di separarlo dagli analoghi o da possibili prodotti fraudolenti. Possono ad esempio essere introdotti vincoli in negativo (forme polliniche che non devono essere presenti) o stabilirne dei contenuti massimi. Inoltre è utile inserire anche alcuni parametri qualitativi, perché nell’offerta di un prodotto di gamma alta, la tipicità non può essere disgiunta dalla qualità obiettiva.
Nella redazione di questo secondo articolo del disciplinare si possono incontrare diversi ordini di problemi.
Il primo è costituito dalla notevole variabilità naturale del miele, che rende complessa la definizione univoca delle specifiche del prodotto: l’imposizione di limiti rigidi e restrittivi rischia di penalizzare una parte della produzione, ma d’altro canto ampliando i limiti di composizione, si rischia invece di far rientrare qualsiasi prodotto nell’ambito della denominazione da proteggere.
Inoltre, non esiste un metodo analitico semplice e univoco che possa essere utilizzato sia per la descrizione del prodotto che in fase di controllo. L’analisi melissopalinologica e quella organolettica, pur fornendo importanti informazioni, richiedono un elevato livello di specializzazione e sono scarsamente riproducibili e soggette ad una intrinseca discrezionalità; le analisi fisico-chimiche, più riproducibili e facilmente applicabili, hanno invece un valore diagnostico e discriminativo inferiore: una buona definizione si ottiene solo integrando le informazioni derivanti da tutti e tre i sistemi.
Paradossalmente, la maniera più coscienziosa di risolvere il problema della variabilità è quella di mantenere un certo margine di discrezionalità. Analogamente a quanto avviene nella diagnosi dei mieli uniflorali, anziché fornire precisi limiti di composizione, può essere più indicato definire il prodotto attraverso parametri statistici descrittivi, quali media e deviazione standard, che rappresentano i comportamenti più tipici. In fase di controllo si consiglia di confrontare i risultati ottenuti con questi dati e giudicarli globalmente, senza interpretare i valori descrittivi come limiti numerici tassativi, ma valutando la rispondenza al quadro generale piuttosto che a ogni singolo parametro.
Anche se a livello di ricerca sono allo studio parametri diagnostici particolarmente significativi e sistemi di analisi statistica, si ritiene che attualmente quella sopra indicata sia la soluzione più praticabile.
Un’altra importante osservazione che deve essere fatta sulle specifiche di prodotto che vengono introdotte in questa parte del disciplinare riguarda l’obbligo di garantire al consumatore che ogni parametro indicato sia effettivamente rispettato. La maniera più semplice di risolvere il problema sarebbe quella di controllare ogni parametro su ogni lotto di produzione, ma questo è spesso economicamente non proponibile. Quando non si voglia procedere ad un controllo analitico a tappeto, occorre quindi prevedere in che modo la rispondenza al requisito indicato possa essere garantita. Ad esempio, per l’origine geografica si può evitare di controllare le caratteristiche melissopalinologiche su ogni lotto quando esistano meccanismi diversi di garanzia: la denuncia delle postazioni di raccolta e di produzione, i registri di carico e scarico e un adeguato sistema di identificazione e rintracciabilità del prodotto possono ad esempio consentire di attestare la provenienza del miele attraverso prove documentali anziché analitiche. Analogamente il controllo melissopalinologico di un miele uniflorale può essere superfluo quando prove documentali possono dimostrare che la produzione è avvenuta nelle zone e nel periodo di fioritura dell’essenza in questione (rispondenza al requisito di origine), e il controllo di un semplice parametro fisico-chimico caratterizzante o l’esame organolettico possono provare la rispondenza.
Ma se un parametro non è in effetti indispensabile al controllo, perché allora introdurlo nelle specifiche di prodotto? La risposta è che non tutte le fasi di controllo presentano le stesse problematiche; se nella fase produttiva è possibile dare garanzia al consumatore con un insieme di controlli documentali, in altri casi è indispensabile un quadro analitico/compositivo completo di riferimento, ad esempio su un prodotto prelevato dal mercato, o quando esistano dei casi dubbi o di difficile interpretazione o ancora quando si renda necessario un controllo incrociato, per la verifica di irregolarità nelle registrazioni.
Uno degli esempi più riusciti e originali di questo difficile lavoro di traduzione di elementi tecnici descrittivi in specificità del prodotto è rappresentato dal Miel de Corse – Mele di Corsica. La Corsica è caratterizzata da un ambiente naturale e produttivo unico, con una vegetazione del tutto distinta da quella continentale; i mieli sono tutti dotati di una notevole specificità, ma ovviamente risultano molto variabili a seconda delle risorse bottinate e dell’epoca di produzione. Introducendo nella descrizione elementi organolettici accanto a quelli melissopalinologici, si è riusciti a differenziare sei varietà diverse, identificate da sei nomi di fantasia relativi alla stagione e all’ambiente di produzione (primavera, macchia di primavera, melata di macchia, macchia d’estate, macchia d’autunno, castagneto). Ogni varietà è caratterizzata, sia a livello di specifiche di prodotto che di promozione e comunicazione, da una diversa descrizione organolettica e da un tipico paesaggio produttivo. Il produttore può scegliere se commercializzare il miele con la denominazione semplice (Miel de Corse – Mele di Corsica) o se utilizzare anche la specifica di quella che è detta “Gamme variétale”. Creando questa gamma si è avviato un sistema di presentazione e promozione del prodotto senz’altro molto accattivante per i consumatori ai quali è rivolto (turisti, generalmente molto interessati agli aspetti naturalistici) risolvendo allo stesso tempo un problema che sembrava inizialmente insormontabile: utilizzare la stessa denominazione per prodotti diversi.
“c) la delimitazione
della zona geografica e, se del caso, gli elementi[9] che indicano
il rispetto delle condizioni di cui all’art. 2, paragrafo 4”.
In questo articolo deve essere definita l’area di produzione della denominazione. Normalmente per la delimitazione si fa riferimento ai confini amministrativi esistenti (per Comune, Provincia, Regione). Quando si utilizzino altri limiti (curve di livello, bacini idrografici o aree definite da criteri vegetazionali, geologici o pedologici) è necessario integrare il disciplinare con un’adeguata cartografia in cui siano disegnati i confini dell’area interessata.
Un’importante considerazione riguarda il modo di delimitare l’area: il criterio rigoroso vorrebbe che la delimitazione dell’area emergesse dall’evidenza che i prodotti che vi originano hanno elementi di specificità in comune. In altre parole, prima i prodotti vengono studiati e poi, in base alle caratteristiche evidenziate, si delimita l’area è in grado di esprimere gli elementi di specificità identificati.
Molto più spesso invece si tende a procedere in senso inverso: si definisce un’area, in base a criteri amministrativi o di diversa opportunità e si procede a studiare le caratteristiche di quello che vi si produce al fine di evidenziarne le peculiarità e gli elementi comuni. Anche questo modo di procedere può comunque portare a risultati analoghi al precedente, sempre però che si sia disposti ad estendere i confini a zone limitrofe, se se ne identifica l’uniformità produttiva, ovvero, in caso contrario, ad escludere alcune zone non rispondenti.
È chiaro che l’uso del criterio più rigoroso (la delimitazione deriva dal prodotto) rende prive di senso le domande che talora vengono poste sulle dimensioni o caratteristiche ideali delle aree che si possono candidare per registrare i loro prodotti come DOP o IGP: alcune considerazioni sulle dimensioni dell’area e gli aspetti economici sono già stati fatti trattando l’argomento della scelta tra DOP e IGP e a questo si rimanda (vedi questo Capitolo, § 2).
“d) gli elementi che
comprovano che il prodotto agricolo o alimentare è originario della zona
geografica ai sensi dell’articolo 2. paragrafo 2. lettera a) o b), a seconda
dei casi”.
Questo punto è molto simile al successivo punto f) e la prima impressione è che richiedano la stessa cosa. Uno dei due si riferisce alle caratteristiche di specificità che il prodotto possiede in quanto originario di un determinato territorio e l’altra agli elementi in grado di provare in sede di controllo, che il prodotto immesso sul mercato ha effettivamente l’origine della designazione protetta. Quale dei due punti si riferisca all’una o all’altra cosa è però tutt’altro che chiaro, e ogni lettore dà la propria interpretazione.
È utile attenersi all’interpretazione dell’Amministrazione nazionale, che vede al punto d) il riferimento agli elementi dell’ambiente geografico (tradizionali, produttivi o ambientali) che determinano la specificità e al successivo punto f) il riferimento ai sistemi di controllo messi in atto per assicurare che il prodotto a denominazione protetta risponda ai previsti requisiti di origine.
Se però si passano in rassegna le schede riepilogative pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee per i prodotti DOP e IGP di altri paesi europei, si vede che l’interpretazione è tutt’altro che univoca: in alcuni casi i due punti sono totalmente invertiti, più spesso gli elementi sono confusamente suddivisi tra i due punti senza un apparente criterio logico.
Volendoci attenere all’interpretazione del MIPAF, in questa parte del disciplinare andranno indicati gli elementi che permettono di dimostrare che il miele del territorio considerato deve le sue caratteristiche proprio all’ambiente di origine, comprensivo dei suoi elementi di carattere storico/tradizionale, naturale, agricolo e produttivo. Vanno quindi qui riassunti i risultati emersi nella fase di studio e raccolta di documentazione (vedi questo Capitolo, § 4.1 e 4.2). È ribadito anche dalla circolare ministeriale più volte citata che nel disciplinare questi elementi devono essere contenuti in maniera sintetica, mentre vanno riportati in modo ampio e dettagliato nella relazione tecnica e in quella storica. Di tutto il disciplinare questa è l’unica parte discorsiva e di carattere più informativo che di normazione.
Per gli elementi di tipo storico/tradizionale, fermo restando il dubbio precedentemente avanzato circa la fondatezza di questa richiesta (vedi questo Capitolo, § 4.2), sarà utile mettere in evidenza soprattutto gli elementi che differenziano la tradizione produttiva locale dal resto del territorio nazionale, ad esempio in cucina (dolci tipici) o per altri usi locali tradizionali (medicinali, bevande fermentate). Se esiste, può essere utile evidenziare l’uso già consolidato nel tempo della denominazione da registrare.
Gli elementi ambientali di tipo naturale o agricolo devono invece essere sintetizzati a partire dagli studi di caratterizzazione: notizie di tipo vegetazionale e di uso del territorio, integrati con le informazioni che emergono dalla composizione dei mieli e dai loro spettri pollinici.
Per le DOP è necessario anche presentare elementi di tipo produttivo, illustrando le peculiarità dell’attività apistica nel territorio, per provare che produttori di altre zone che venissero a produrre nell’area delimitata otterrebbero un prodotto con caratteristiche diverse.
“e) la descrizione del
metodo di ottenimento del prodotto e, se del caso, i metodi locali, leali e
costanti”
Nel caso del miele il metodo di ottenimento varia poco da una zona all’altra e quindi incide relativamente poco sulle caratteristiche finali del prodotto. Non si può comunque escludere completamente la possibilità che esistano zone in cui nella metodologia produttiva ci siano degli elementi di caratterizzazione del prodotto locale.
In generale la descrizione del metodo di ottenimento di un miele DOP o IGP può limitarsi a delle prescrizioni che hanno un significato di tipo qualitativo e non sono finalizzate alla caratterizzazione. Anche se non esistono disposizioni in merito e un prodotto tipico può essere quindi totalmente svincolato da limiti qualitativi, non è comunque utile che lo sia, in quanto comunque si tratta di un prodotto venduto ad un prezzo elevato ad un consumatore esigente e delle carenze qualitative avrebbero, prima o poi, delle importanti ricadute negative.
Per un miele tipico, in cui le componenti aromatiche hanno grande importanza, la preservazione per tutto il periodo di commercializzazione delle caratteristiche organolettiche tipiche del miele fresco, è un requisito qualitativo prioritario, e le modalità di preparazione per il mercato di un miele DOP o IGP dovrebbero quindi prevedere il divieto di trattamenti termici elevati e modalità di conservazione adeguate (luogo fresco e asciutto, al riparo dalla luce, per un periodo massimo stabilito). Si può consigliare un disciplinare di produzione analogo a quello previsto per il miele vergine integrale (Anonimo, 1995), per il quale è stata richiesta la registrazione come Specialità Tradizionale Garantita ai sensi del regolamento (CEE) 2082/92 sulle attestazioni di specificità dei prodotti agricoli e alimentari (G.U.C.E., 27/7/1992).
“f) gli elementi che
comprovano il legame con l’ambiente geografico o con l’origine geografica ai
sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a) o b), a seconda dei casi”.
Stante la confusione sul significato di questo paragrafo rispetto al precedente d), c’è chi redige anche questa parte in modo equivalente all’altra, in maniera discorsiva. Seguendo l’interpretazione del MIPAF (vedi questo Capitolo, § 5.4), in questa parte andrebbero indicate le norme che permettono di garantire che il prodotto immesso al mercato ha effettivamente le caratteristiche stabilite ed effettivamente proviene dalla zona d’origine indicata.
Per il miele, la prova della provenienza sta sempre e comunque nel suo certificato d’origine incorporato, lo spettro pollinico che accompagna sempre il prodotto, dalla produzione alla tavola, e che può in ogni momento essere evidenziato per un controllo. Per estendere il sistema di controllo ad ogni confezione di prodotto protetto è però necessario prevedere un sistema di identificazione e rintracciabilità che implica una serie di obblighi amministrativi e di registrazioni obbligatorie.
Il sistema di identificazione può prevedere l’uso di codici che il produttore assegna e gestisce autonomamente o un sistema di marcatura con sigilli o fascette numerate, gestite da un unico responsabile al di sopra delle parti. Tutto questo permette di tenere sotto controllo la totalità del prodotto e riduce enormemente il rischio di falsificazioni. Data la varietà dei sistemi possibili può essere utile che il disciplinare contenga solo i principi generali, specificando le singole azioni in un documento applicativo non soggetto ad approvazione ministeriale, definito con l’organismo di controllo.
“g) i riferimenti
relativi alle strutture di controllo previste all’art. 10”
Nelle fasi iniziali di applicazione del regolamento (CEE) 2081/92 c’è stata un po’ di confusione relativamente al compito di controllo delle denominazioni di origine, che nel precedente sistema di protezione nazionale era affidato ai Consorzi di Tutela. Nel sistema attuale, così com’era previsto dal regolamento, il compito del controllo è invece affidato ad organismi terzi che devono adempiere le condizioni stabilite nella norma EN 45011 e che possono essere o autorità di controllo designate o organismi privati autorizzati dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali. Nel disciplinare è comunque sufficiente indicare il riferimento al fatto che l’organismo di controllo viene definito in accordo all’articolo 10 del regolamento (CEE) 2081/92.
In seguito l’organismo di controllo indicato dall’associazione richiedente dovrà proporsi per il controllo e, una volta dimostrato di essere in possesso degli idonei requisiti, verrà autorizzato dal Ministero.
Anche per questo punto nel disciplinare è opportuno limitarsi a indicare i criteri generali richiamando, ad esempio, le procedure attuative predisposte dai produttori in base alle prescrizioni dell’organismo di controllo.
“h) gli elementi specifici dell’etichettatura connessi alla dicitura DOP o IGP, a seconda dei casi, o le diciture tradizionali nazionali equivalenti”
Le sigle DOP e IGP possono essere usate da sole, insieme o in alternativa alle denominazioni complete “denominazione di origine protetta” e “indicazione di origine protetta”. Le norme di riferimento sono contenute nel regolamento (CEE) 2037/92 e successive modifiche[10]. Non è obbligatorio usare sempre la denominazione in associazione con il relativo logo, ma può essere utile farlo, in quanto il consumatore imparerà presto a riconoscere questo segno di qualità.
In questa parte del disciplinare possono essere inserite eventuali norme utili a una più univoca e riconoscibile presentazione del prodotto, come il tipo di confezione, o indicazioni aggiuntive da apporre al fine di rendere più completa e trasparente l’etichetta. Può ad esempio essere prescritto l’uso di un logo per la denominazione, l’obbligo di indicare la data di produzione o il termine preferenziale di consumo o le indicazioni di conservazione. Può inoltre essere qui indicato l’obbligo della presentazione con il sigillo numerato, utile ai fini del controllo.
“i) le eventuali
condizioni da rispettare in forza di disposizioni comunitarie e/o nazionali”
Quest’ultimo punto non è di interesse per le DOP o le IGP italiane sul miele in quanto si riferisce ai soli prodotti già protetti da disposizioni nazionali o europee, analoghe al regolamento (CEE) 2081/92.
Secondo il regolamento (CEE) 2081/92 hanno titolo per presentare la domanda di registrazione della denominazione solo le Associazioni, definite all’art. 5 come qualsiasi organizzazione, a prescindere dalla sua forma giuridica o composizione, di produttori e/o trasformatori interessati al prodotto per il quale si richiede la registrazione. Questa facoltà viene estesa anche a persone fisiche o giuridiche diverse, secondo procedure che vedono coinvolto il Comitato consultivo che assiste la Commissione su questi aspetti.
La circolare ministeriale del 28 giugno 2000[11] definisce in maniera più restrittiva i requisiti dell’Associazione che deve:
- essere costituita con atto pubblico;
- avere fra gli scopi sociali la registrazione del prodotto per il quale presenta la domanda;
- essere espressione dei produttori e/o trasformatori ricadenti nel territorio delimitato dal disciplinare;
- avere una stabilità e durata atta a sostenere le attività connesse alle procedure di registrazione e ad eventuali opposizioni.
Non è invece prevista una particolare forma giuridica. Perché l’associazione abbia l’obiettivo della registrazione del prodotto esplicitamente indicato negli scopi sociali non è indispensabile che essa venga costituita ad hoc: se sul territorio opera già una associazione che presenta gli altri requisiti (costituzione con atto pubblico, durata minima e rappresentatività dei produttori della zona) può essere più pratico introdurre, con i meccanismi previsti dallo statuto, una modifica statutaria nella preesistente associazione, piuttosto che costituirne una nuova. In alcuni casi anche una delibera assembleare può sostituire il requisito di cui al secondo punto, se nello statuto dell’associazione sono già presenti scopi in linea con l’obiettivo della registrazione comunitaria, quali la promozione, valorizzazione e tutela dei prodotti dei soci e la decisione assembleare ha quindi solo lo scopo di realizzare tali obiettivi.
Per assicurarsi che l’istanza che verrà presentata sia accettabile, è comunque opportuno chiarire questi punti direttamente con le funzioni amministrative responsabili (in sede regionale o nazionale).
Riguardo alla rappresentatività dell’associazione richiedente, essa deve essere espressione dei produttori e/o trasformatori del territorio, ma nella circolare ministeriale non viene stabilito un particolare criterio. L’amministrazione nazionale però acquisirà su questo argomento anche il parere della Regione (o Provincia autonoma), che dovrà fornire gli elementi che permettano di definire il contesto socio-economico e produttivo nel quale si collocano il soggetto richiedente e il prodotto per il quale si chiede la registrazione. Inoltre, nelle fasi della procedura di registrazione sia nazionali che comunitarie, esistono tappe che permettono a tutti i soggetti economicamente interessati di sollevare opposizione. È quindi indispensabile che il gruppo richiedente si assicuri il consenso più largo possibile. Può essere utile ricordare come per l’autorizzazione dei Consorzi di Tutela il criterio di rappresentatività sia dei 2/3 del prodotto ammesso alla denominazione (D. M. 12 aprile 2000-1[12]).
Sul piano concreto, a parte gli assolvimenti sopra riferiti, è importante stabilire quale ruolo l’associazione vorrà assumere nella gestione della denominazione protetta. Sicuramente è possibile e utile che i produttori, attraverso una loro organizzazione si facciano carico di una parte della gestione, e se l’organizzazione prende la forma di un Consorzio di Tutela questo ruolo può essere svolto in maniera più autorevole e incisiva. Prima di procedere alla costituzione di un consorzio di tutela è però necessario vagliare attentamente gli impegni che una organizzazione del genere comporta.
Si deve ricordare che, secondo la legge 526/99[13], il ruolo dei consorzi di tutela è distinto dalle attività di controllo: essi hanno solo la funzione di tutela, promozione, valorizzazione, informazione del consumatore e di cura generale degli interessi relativi alla denominazione. I consorzi di tutela possono anche svolgere compiti consultivi relativi al prodotto interessato, definire programmi finalizzati al miglioramento qualitativo delle produzioni, promuovere accordi tra i produttori relativi alla programmazione, miglioramento e concentrazione dell’offerta, collaborare alla vigilanza, alla tutela e alla salvaguardia della denominazione interessata. Per svolgere questi compiti il consorzio di tutela deve avere un incarico conferito con decreto del MIPAF, che è subordinato a determinati requisiti di rappresentatività (D. M. 12 aprile 2000[14]).
Le indicazioni per l’istruzione della domanda di registrazione sono ben chiarite dalla Circolare MIPAF del 28 giugno 2000[15] e si rimanda quindi ad una lettura attenta della stessa. Possono inoltre servire da esempi i documenti riportati nella PARTE III. Si tratta di una documentazione complessa e corposa (anche diverse centinaia di pagine) ed è quindi necessario prepararla con cura, in modo che risulti chiara e che le informazioni possano essere reperite facilmente.
Proprio perché normalmente molto corposo è utile che il dossier sia articolato in documenti di ordine diverso, in modo che possa essere eventualmente ridotto, per i diversi usi, senza perdere il senso generale. Ad esempio è utile che tutti i documenti di dettaglio tecnico e storico siano riportati in allegati autonomi e solo riassunti nelle rispettive relazioni tecnica e storica. Deve inoltre essere possibile risalire alla sequenza logica dei documenti dalla numerazione utilizzata per identificare le varie parti.
È senz’altro utile, se non indispensabile, che la preparazione dell’istanza sia concordata direttamente con le funzioni amministrative responsabili. L’interlocutore finale al quale è destinata la domanda è il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, Dipartimento della qualità dei prodotti agroalimentari e dei servizi - Direzione generale per la qualità dei prodotti agroalimentari e la tutela del consumatore[16]. L’ufficio ministeriale ha come corrispondenti dei servizi regionali ai quali, al ricevimento della domanda, richiederà parere in merito: quindi quando il servizio regionale corrispondente è attivo e competente è forse preferibile rivolgersi a questo, sia per la necessaria consulenza nell’istruzione della domanda, che per la trasmissione della stessa al Ministero.
L’istanza vera e propria deve essere in regola con le norme sul bollo, deve essere corredata dalla relativa delibera assembleare (o documento equivalente) e firmata dal legale rappresentante dell’Associazione. È utile che riporti lo schema degli allegati e il loro articolarsi. Nella PARTE III è riportato un esempio di istanza. Per ognuno dei documenti da allegare seguono qui invece delle note esplicative.
Questo documento non è esplicitamente richiesto dalla Circolare MIPAF del 28 giugno 2000, ma è utile per organizzare in un unico documento la dimostrazione dei requisiti richiesti (vedi questo Capitolo, § 6). A questa possono essere allegati i documenti che attestano l’esistenza dei requisiti stessi (Atto costitutivo e Statuto dell’Associazione, come richiesto dalla circolare, Elenco Soci, Relazioni di attività, Estratti dai libri verbali, etc.). Nella PARTE III è riportata come esempio la scheda riassuntiva preparata per la denominazione di origine protetta Miele d’Abruzzo.
Il disciplinare completo deve far parte della documentazione inviata, insieme ai suoi eventuali allegati (carte di delimitazione, norme tecniche diverse, metodi di analisi, specifiche di prodotto, definizione grafica del marchio, specifiche tecniche di particolari imballaggi, etc.). Si noti che si tratta in questo caso di veri e propri allegati al disciplinare, cioè dei documenti indispensabili per l’applicazione dello stesso, e non dei documenti di giustificazione tecnica, che andranno invece a comporre la relazione tecnica. Come esempi di disciplinare possono essere visionati quello allestito per la domanda relativa al Miele d’Abruzzo, riportato nella Parte III, e quello già pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale come proposta di disciplinare relativo al Miele della Lunigiana riportato nell’Appendice I B.
Non c’è un unico modo di redigere una relazione tecnica: da questa devono però emergere chiaramente le motivazioni che hanno indotto a presentare la domanda di registrazione e in particolare:
- il contesto socio-economico e produttivo;
- gli elementi di specificità del prodotto, sia quelli derivati dall’ambiente naturale che dalle particolarità produttive della zona;
- la giustificazione tecnica di quanto contenuto nel disciplinare.
La circolare fa riferimento alla relazione tecnica solo per indicare che questa deve contenere, in maniera più estesa rispetto al disciplinare gli elementi di cui ai punti d) ed f), nonché b) ed e), del paragrafo 2 dell’Art. 4 del regolamento (CEE) 2081/92 e quindi può essere utile evidenziare questi punti nell’articolato della relazione. A seconda del materiale disponibile, delle sue dimensioni, del fatto che sia già disponibile sotto forma di pubblicazioni autonome o meno, si costruiranno relazioni tecniche che avranno una struttura apparentemente diversa. Ad esempio quella del Miele della Lunigiana (non riportata in questa guida) è del tutto simile ad uno studio di caratterizzazione analogo a quelli che costituiscono la Parte II; quella del Miele d’Abruzzo (riportata come esempio nella Parte III) prevede invece come allegati lo studio di caratterizzazione e l’indagine sull’apicoltura della regione (costituite da due documenti autonomi di oltre duecento pagine in totale) e presenta quindi come parte preponderante, nel testo della relazione vera e propria, la giustificazione tecnica del contenuto del disciplinare. Nella parte III è riportato anche un esempio di documento relativo a uno studio sulla situazione apistica locale, preparato per la domanda di registrazione della DOP Miele della Valtellina.
La stesura della relazione tecnica rappresenta anche l’occasione per riunire e sistematizzare tutto il materiale che è stato prodotto nelle fasi di studio e di raccolta dati e in quelle di discussione per l’elaborazione del disciplinare. In questo senso permette di verificare la coerenza delle diverse parti e di correggere eventualmente alcuni dettagli del disciplinare.
Secondo il nostro modo di vedere, considerando che la specificità del prodotto nasce da un insieme di fattori antichi e moderni insieme, la separazione richiesta dalla circolare del Ministero del 28 giugno 2000 tra relazione storica e tecnica appare come una forzatura. Molto più logica sarebbe un’unica relazione in cui alla storia del prodotto si salda, senza soluzione di continuità, l’illustrazione della situazione attuale in termini socio-economici, produttivi e tecnici, per arrivare alla conclusione dell’unicità del prodotto in questione. Tuttavia la distinzione è più agevole dal punto di vista pratico in quanto permette di separare nettamente la parte storica, che ha un carattere prevalentemente descrittivo, da quella tecnica, dove sono i dati obiettivi a prevalere. Per la stesura di questo documento possono essere dati gli stessi suggerimenti già espressi nel corrispondente punto d) del disciplinare (vedi questo Capitolo, § 4.2).
Quando le fonti di informazione utilizzate sono libri, riviste o comunque documenti rintracciabili presso biblioteche pubbliche, non è necessario allegarle in copia, in quanto questo appesantirebbe il documento senza apportare in realtà alcuna informazione aggiuntiva. È indispensabile invece allegare copia di quei documenti che non sarebbero altrimenti rintracciabili, quali documenti aziendali o etichette. Come esempio di questo tipo di documento può essere presa visione di quello allestito per la domanda relativa al Miele della Valtellina, riportato nella Parte III.
È necessario allegare carte geografiche di dimensioni tali da consentire l’individuazione precisa della zona di produzione e dei suoi confini, nonché una cartina dell’Italia con evidenziata la zona in questione, in modo da consentire anche ai rappresentanti degli altri Paesi Comunitari di visualizzare immediatamente la sua localizzazione. A seconda delle dimensioni e delle caratteristiche dell’area delimitata la cartografia potrà assumere modalità di presentazione anche molto diverse. In alcuni casi la cartografia fa già parte della documentazione, in quanto integra il disciplinare e quindi sarà sufficiente provvedere alla cartina d’insieme dell’Italia con evidenziata la zona.
In seguito alla verifica della legittimità e ammissibilità della domanda da parte dell’Amministrazione e dopo la riunione di pubblico accertamento, l’Amministrazione, d’intesa con il soggetto che ha richiesto la registrazione, procede alla redazione della scheda riepilogativa, finalizzata alla trasmissione della domanda stessa alla Commissione.
Non è quindi compito dell’Associazione richiedente redigere tale scheda, ma può essere utile presentarne una bozza insieme alla documentazione dell’istanza come documento di lavoro per l’Amministrazione. La redazione di tale scheda è particolarmente importante in quanto costituisce l’unico documento che la Commissione pubblicherà sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee, e quindi rappresenterà il documento pubblico visibile a tutti, che dovrà, tra l’altro, consentire l’esercizio del diritto di opposizione da parte degli Stati Membri.
La scheda va redatta su un modello predefinito (vedi Appendice I A – Vademecum) e deve contenere in forma sintetica tutti gli elementi del disciplinare. Come esempi di questo tipo di documento possono essere esaminati quello allestito per la domanda relativa al Miele d’Abruzzo, riportato nella Parte III e quello già pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee per il “Miel de Corse – Mele di Corsica”. (Appendice I A).
L’Amministrazione nazionale, per la valutazione dell’istanza di registrazione presentata, acquisirà il parere della Regione o Provincia autonoma nel cui ambito territoriale ricade la zona di produzione. Quando l’associazione richiedente trasmette l’istanza al Ministero per il tramite dei Servizi regionali, il parere della Regione accompagna l’istanza stessa; ma anche quando l’associazione provvede direttamente alla trasmissione, può essere opportuno che l’istanza sia completata con un documento che contenga il parere della Regione in merito. Tale documento dovrà contenere elementi di valutazione idonei a definire il contesto socio-economico e produttivo nel quale si collocano il soggetto richiedente ed il prodotto stesso.
Una volta trasmessa, la domanda di registrazione inizia un lungo percorso che porterà, come tappa finale, alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee dell’iscrizione del nuovo prodotto nel Registro delle denominazioni di origine e indicazioni geografiche. Per la parte nazionale la procedura è stata chiarita dalla Circolare Ministeriale del 28 giugno 2000[17], alla quale si fa riferimento per la descrizione che segue.
Ricevuta la domanda di registrazione con la relativa documentazione, l’Amministrazione accerta prioritariamente, entro 30 giorni, la legittimazione del soggetto richiedente. Ove il soggetto richiedente non risulti legittimato a presentare istanza, la domanda viene respinta. Nel caso in cui sia accertata tale legittimazione, l’Amministrazione ne dà comunicazione nei termini sopra indicati, notificando altresì l’inizio del relativo procedimento ed il nominativo del funzionario responsabile.
L’Amministrazione verifica che la domanda sia giustificata, che la documentazione sia completa, che siano soddisfatti i requisiti e le condizioni previste dal regolamento (CEE) 2081/92, che la disciplina tecnica sia adeguata. Le osservazioni e gli eventuali rilievi dell’Amministrazione sono comunicati al soggetto richiedente ed alla Regione o Provincia autonoma territorialmente competente. La mancata rimozione delle cause sulle quali si fondano i rilievi di cui sopra, costituisce elemento ostativo al proseguimento dell’istruttoria e determina la chiusura del procedimento. L’Amministrazione, ultimata la verifica di cui sopra con esito positivo, ne dà comunicazione al soggetto presentatore dell’istanza ed alla Regione o Provincia autonoma territorialmente competenti, trasmettendo il disciplinare tecnico di produzione nella stesura finale.
Successivamente l’Amministrazione chiede al soggetto presentatore dell’istanza, alla/e Regioni e/o Province autonome, alla/e Province, alla/e Camere di Commercio territorialmente competenti, di concordare il luogo e la sede per una riunione di pubblico accertamento. Quindi l’Amministrazione comunica agli stessi soggetti la data e l’ora in cui avrà luogo la predetta riunione e invita gli stessi a darne comunicazione ai Comuni, alle organizzazioni professionali e di categoria ed ai produttori ed agli operatori economici interessati, assicurando la massima divulgazione dell’evento anche mediante la diramazione di avvisi, l’affissione di manifesti o altri mezzi equivalenti. Scopo della riunione di pubblico accertamento è quello di permettere al Ministero, in quanto soggetto attributario della funzione di notifica alla Commissione Europea della domanda di registrazione della DOP o IGP, di verificare la rispondenza della disciplina proposta agli usi leali e costanti previsti dal regolamento (CEE) 2081/92. Alla predetta riunione, aperta a tutti i soggetti economicamente interessati dei quali deve essere registrata la presenza e per i quali deve essere disponibile copia del disciplinare oggetto della discussione, partecipano, in rappresentanza del Ministero, almeno due funzionari con il compito di accertarne la regolare convocazione, di coordinare i lavori, di acquisire eventuali osservazioni ed al fine di riferire all’Amministrazione. Quest’ultima sulla base degli elementi acquisiti dai funzionari ministeriali nel corso della riunione di pubblico accertamento, esprime eventuali ulteriori valutazioni, sentendo anche il soggetto che ha richiesto la registrazione.
Dopo tali valutazioni, l’Amministrazione elabora, d’intesa con il soggetto che ha richiesto la registrazione, una scheda riepilogativa contenente in forma sintetica, ma esaustiva, tutti gli elementi previsti dall’art. 4, paragrafo 2 del regolamento (CEE) 2081/92. Tale scheda riepilogativa assume carattere di particolare rilievo, in quanto costituisce l’unico documento che la Commissione, terminata con esito positivo la verifica di cui l’art. 6, paragrafo 1 del regolamento, pubblica nella Gazzetta ufficiale delle Comunità Europee. La pubblicazione predetta soddisfa l’esigenza di consentire l’esercizio del diritto di opposizione a tutti gli Stati membri.
L’Amministrazione provvede alla pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale della proposta di disciplinare di produzione e della scheda riepilogativa, affinché tutti i soggetti interessati possano prenderne visione e presentare eventuali osservazioni.
Trascorsi 30 giorni dalla data di pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, in mancanza di osservazioni o, dopo averle valutate ed aver risolto eventuali dissensi, l’Amministrazione notifica alla Commissione la richiesta di registrazione e la documentazione relativa.
La Commissione accusa ricevuta del fascicolo della domanda, una volta completo, rinviando allo Stato membro di provenienza la scheda riepilogativa, su cui vengono indicati il numero di fascicolo e la data di ricevimento. Essa può eventualmente chiedere allo Stato membro informazioni complementari. Il numero di fascicolo dovrà essere successivamente utilizzato in tutta la corrispondenza attinente alla domanda in questione. In conformità dell'articolo 6, paragrafo 1, la Commissione ha sei mesi di tempo, a decorrere dalla data di ricevimento del fascicolo completo, per la verifica della domanda di registrazione. Al termine di questo periodo la Commissione informa delle sue conclusioni lo Stato membro interessato.
Qualora la Commissione sia giunta alla conclusione che la denominazione ha i requisiti necessari per ottenere la protezione, essa pubblica nella Gazzetta ufficiale delle Comunità Europee la domanda di registrazione nella forma della scheda riepilogativa e, se del caso, le motivazioni alla base delle sue conclusioni. Dalla data di pubblicazione della scheda riepilogativa decorrono sei mesi durante i quali qualsiasi persona fisica o giuridica legittimamente interessata può opporsi alla registrazione per il tramite dell’autorità competente dello Stato membro. Qualora venga trasmessa opposizione ricevibile, la Commissione invita gli Stati membri interessati a cercare un accordo entro 3 mesi. Qualora non si raggiunga entro questi termini, sarà la Commissione, assistita dal competente Comitato consultivo, a prendere una decisione in merito. Se in questa fase vengono apportate modifiche al disciplinare, la procedura si riavvia con la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee della nuova domanda di registrazione
Se non vengono presentate alla Commissione dichiarazioni di opposizione conformemente all’articolo 7, la denominazione è iscritta nel registro tenuto dalla Commissione, denominato «Registro delle denominazioni d’origine protette e delle indicazioni geografiche protette», che contiene i nomi delle associazioni e degli organismi di controllo interessati. Una volta all’anno la Commissione pubblica nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee l’aggiornamento delle denominazioni iscritte nel registro.
Il raggiungimento della registrazione più che un punto d’arrivo è un punto di partenza. Da qui in avanti i meccanismi di tutela e valorizzazione fino a quel momento progettati e immaginati, dovranno cominciare a funzionare effettivamente. Se i costi della progettazione e registrazione possono essere supportati da risorse pubbliche, quelli molto più consistenti della gestione, dei controlli sul prodotto e della promozione della denominazione, anche se potranno beneficiare di alcuni finanziamenti, peseranno in gran parte sugli utilizzatori.
È molto probabile che nella fase di rodaggio si evidenzino una miriade di piccoli o grandi problemi, legati ad aspetti che non erano stati previsti o valutati con sufficiente responsabilità, o all’evoluzione della situazione dal momento della progettazione a quello della vera e propria applicazione. Sarebbe quindi importante, durante la progettazione, avviare precocemente una fase di ‘simulazione’, per poter meglio prevedere quella che sarà l’applicazione a regime.
Una volta concluso l’iter della registrazione i produttori che l’hanno promossa non possono estraniarsi dalla gestione della denominazione; anche se la responsabilità dei controlli è affidata ad un organismo terzo, le funzione di tutela, promozione, valorizzazione, informazione del consumatore e di cura generale degli interessi relativi alla denominazione devono comunque essere svolte dai diretti interessati. Inoltre chi meglio dei produttori può essere in grado di svolgere compiti consultivi relativi al loro prodotto nei confronti dell’organismo di controllo?
Con ogni probabilità i meccanismi di definizione e di controllo concepiti nella stesura del disciplinare richiederanno dei periodici aggiornamenti, a causa del mutare delle situazioni produttive, degli andamenti commerciali, dell’evolvere dei metodi analitici, dell’avanzare delle conoscenze ed è quindi necessaria una continua vigilanza.
Col raggiungimento della registrazione quindi, si chiude un capitolo, ma se ne inizia un altro molto più impegnativo.
[1] Vedi Capitolo 3 e Appendice I A.
[2] Vedi Capitolo 3 e Appendice I A.
[3] Vedi Capitolo 3 e Appendice I B.
[4] Vedi Capitolo 3 e Appendice I B.
[5] Istituto Sperimentale per la Zoologia Agraria, Roma; Istituto Nazionale di Apicoltura, Bologna, Dipartimento di arboricoltura e protezione delle piante, Università di Perugia; Dipartimento di biologia applicata alla difesa delle piante, Università di Udine; Dipartimento di Botanica, Università di Catania; Di.Va.P.R.A. Entomologia e Zoologia applicate all’Ambiente “Carlo Vidano”, Università di Torino, Istituto Zooprofilattico delle Venezie, Legnaro (PD)
(*) Nel caso di apicoltura nomade, indicare tutte le zone utilizzate dall’apicoltore nel corso dell’anno
[6] Vedi Capitolo 3 e Appendice I B.
[7] Vedi Capitolo 3 e Appendice I.
[8] Un caso diverso è quello delle DOP che utilizzano la
deroga introdotta dal paragrafo 4 dell’art. 2 del regolamento (CEE) 2081/92 e
utilizzano quindi materie prime provenienti da un’aera più ampia o diversa da
quella di trasformazione; questa deroga è applicabile solo per le designazioni
che erano già riconosciute a livello nazionale; per esempio per il Prosciutto
di San Daniele l’area di allevamento dei suini comprende 11 regioni italiane,
mentre quella di trasformazione corrisponde al solo comune di San Daniele.
[9] Ci si riferisce alle DOP per le quali vengono utilizzate
materie prime provenienti da un’aera più ampia o diversa da quella di
trasformazione; quest’area deve comunque essere delimitata, devono sussistere
particolari condizioni per la produzione delle materie prime e deve esistere un
regime di controllo.
[10] Vedi Capitolo 3 e Appendice I A.
[11] Vedi Capitolo 3 e Appendice I B
[12] Vedi Capitolo 3 e Appendice I B
[13] Vedi Capitolo 3 e Appendice I B
[14] Vedi Capitolo 3 e Appendice I B
[15] Vedi Capitolo 3 e Appendice I B
[16] rispetto a quanto indicato nella Circolare Ministeriale del 28 giugno 2000, il nome dell’ufficio destinatario dell’istanza è cambiato a seguito della recente riforma del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali.
[17] Vedi Capitolo 3 e Appendice I B.