LE INDICAZIONI DI ORIGINE
BOTANICA DEL MIELE E LE FRODI COLLEGATE
Testo pubblicato su Lapis, 1997
(7).
Le differenze che esistono tra un
miele e l’altro sono principalmente dovute, come tutti gli apicoltori sanno,
alla variabilità del nettare che costituisce la materia prima della quale le
api si approvvigionano. In Italia (e così in tutti i paesi mediterranei) la
variabilità del prodotto è un elemento sul quale ci si basa molto per la
promozione del miele. Spieghiamo spesso infatti ai consumatori che non si
dovrebbe parlare di “miele”, ma di “mieli”, al plurale, come già si usa fare
per i vini, i formaggi, gli oli. Li intratteniamo sulle diverse tipologie,
convincendoli delle reali differenze (nei confronti delle quali sono tutti
molto scettici) con assaggi guidati, suggerendo l’utilizzo migliore per ogni
prodotto, decantando le virtù salutistiche dei prodotti che risultano meno
graditi al palato e evocando il fascino di quelli più rari e insoliti. Proporre
una gamma differenziata di prodotti non è solo una necessità alla quale ci
costringono le particolarità produttive del nostro paese, ma è anche un sistema
per conquistare nuovi clienti, stimolare all’uso, soddisfare le necessità di un
pubblico che consuma miele con gusto e apprezza la possibilità di poter
scegliere il prodotto preferito. Di qui la necessità di presentare al
consumatore i diversi prodotti con denominazioni di vendita che siano sia
valorizzanti per il prodotto, che trasparenti verso il pubblico e, nello stesso
tempo, verificabili da chi deve tutelare il consumatore.
La direttiva europea sul miele (409/74) e la legge italiana
di recepimento della stessa (753/82) prevedono la possibilità di qualificare il
miele in due maniere diverse: sulla base dell’origine geografica e sulla base
dell’origine botanica. Per le indicazioni geografiche (alle quali era dedicato
l’articolo comparso sul numero 5/97 di LAPIS) l’enunciato della legge è
sufficientemente chiaro ed esauriente in quanto è previsto che la denominazione
“miele” possa essere completata da un nome regionale, territoriale o
topografico qualora il prodotto provenga totalmente
dall’origine indicata. Il produttore che intenda utilizzare una denominazione
geografica può farlo senza particolari difficoltà, in quanto è in possesso
delle informazioni necessarie (la localizzazione degli apiari di produzione)
alla corretta denominazione del prodotto. E quando è necessario verificare la
veridicità della denominazione, in fase di compravendita o di controllo, il
sistema analitico di scelta è attualmente l’analisi melissopalinologica
(nonostante non faccia parte dei metodi ufficiali di analisi) che fornisce il
responso in maniera chiara: lo spettro pollinico è compatibile con l’origine
dichiarata o non lo è.
Nel caso dell’origine botanica, invece, l’enunciato della
direttiva è tutt’altro che completo e lascia ampio margine all’interpretazione.
Si dice infatti che si può applicare un’indicazione inerente all’origine
floreale o vegetale se il prodotto proviene soprattutto da tale origine e ne possiede le caratteristiche
organolettiche, fisico-chimiche e microscopiche.
Il primo dubbio riguarda il fatto se a questo articolo,
riportato tale e quale nella nostra legge, dovessero seguire specifiche
tecniche o meno: nell’interpretazione dello stato italiano la legge avrebbe
dovuto essere completata da un decreto applicativo contenente i limiti di
composizione (quelle caratteristiche organolettiche, fisico-chimiche e
microscopiche) che avrebbero permesso agli organi di tutela di verificare le
denominazioni utilizzate nel commercio, almeno per i tipi di miele più diffusi.
Tale decreto, previsto entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge di
recepimento (dell’ottobre 1982), non è ancora stato pubblicato, privandoci di
un sistema efficace di controllo e tutela. Non sembra però che questa
interpretazione dello stato italiano sia condivisa dagli altri paesi membri,
visto che negli altri paesi europei, anche in quelli più efficienti, i decreti
applicativi non sono mai stati previsti e il problema del controllo delle
denominazioni botaniche resta insoluto. E anche i servizi della CE, in una
comunicazione di qualche tempo fa indirizzata al governo italiano, indicavano
che nella direttiva comunitaria “... la mancata regolamentazione delle
proprietà chimico-fisiche, microscopiche e organolettiche del miele di un solo
fiore è stata intenzionale da parte del legislatore comunitario e ... pertanto
gli stati membri non possono stabilire prescrizioni vincolanti in proposito.”.
Perché? Mistero comunitario.
Altro problema: generalmente si interpreta che la
possibilità di utilizzare denominazioni botaniche sia riservato ai mieli
uniflorali, provenienti cioè principalmente da una sola specie, ma perché non
applicare tale possibilità anche ai mieli provenienti da più specie (castagno e
tiglio, ad esempio) o addirittura a particolari formazioni vegetali (miele di
prateria alpina, di macchia mediterranea, di bosco)? Il fatto di considerare
anche la parola “millefiori” come una indicazione di tipo floreale o vegetale,
sarebbe a favore di una interpretazione ampia di questo punto: la possibilità
legale di utilizzare anche queste denominazioni permetterebbe di valorizzare
alcuni prodotti particolari che attualmente si trovano svantaggiati rispetto al
millefiori, in quanto dotati di particolarità organolettiche che li rendono non
graditi ad un pubblico generico, ma con una clientela potenziale di amatori, se
facilmente identificabili. Ma come risolvere il problema del controllo? E come
evitare il dilagare di indicazioni non trasparenti o addirittura ingannevoli?
Ma le domande che i produttori pongono più spesso sono:
“Cosa vuol dire quel “soprattutto”? E’ il 51 o il 99 %? Quale deve essere la
percentuale d’origine da una determinata specie, per poter legalmente
utilizzare la denominazione uniflorale?”. Infine: “Quali sono le
caratteristiche organolettiche, fisico-chimiche e microscopiche tipiche dei
mieli uniflorali? E quali controlli deve eseguire un produttore scrupoloso per
non rischiare di incorrere in contestazioni sulle denominazioni botaniche?”.
Trovare una risposta a queste domande non è semplice e ci
obbliga a una lunga spiegazione, un po’ pedante, sui sistemi di controllo
dell’origine botanica del miele. Nella parte finale dell’articolo le risposte.
Uso dell’analisi
melissopalinologica per il controllo dell’origine botanica
Siamo abituati, nelle spiegazioni
generiche che ci danno sull’analisi pollinica dei mieli, a sentirci dire che il
miele contiene i granuli pollinici delle piante sulle quali le api hanno
bottinato il nettare e che questo è alla base della determinazione dell’origine
botanica del miele. Così pensiamo che analizzando un miele uniflorale di
girasole ci troveremo solo polline di girasole o che una miscela di metà
eucalipto e metà girasole conterrà 50 % di polline di ciascuna delle due
specie. Quando poi riceviamo il primo bollettino d’analisi pollinica restiamo
fortemente confusi, perché la specie che crediamo dominante risulta invece presente
solo in piccola percentuale e vengono trovati invece in abbondanza pollini di
specie che non erano presenti al momento del raccolto. Ci viene da pensare che
l’analista si sia sbagliato o, opinione più comune, che sia un incompetente. E
quando ci dicono che non disponiamo oggi di un sistema che ci permetta di
stimare in maniera precisa l’origine botanica di un miele, non ci crediamo e
pensiamo: “E l’analisi pollinica, allora?”.
In realtà l’analisi pollinica dei mieli è nata con finalità
di determinare l’origine geografica del prodotto e solo in seguito è stata
applicata alla definizione dell’origine botanica. Infatti il polline nel miele
non deriva solo da quello che vi finisce durante le fasi di raccolta del
nettare da parte delle api (inquinamento o arricchimento primario, l’unico in
relazione con l’origine botanica), ma anche dalle fasi successive di
elaborazione da parte delle api, all’interno dell’alveare (arricchimento
secondario), dalle operazioni di smelatura (arricchimento terziario) o, addirittura,
dal polline disperso nell’atmosfera (arricchimento quaternario). Se per la
determinazione dell’origine geografica questa molteplicità d’origine non è un
problema, il risalire all’origine botanica attraverso l’identificazione dei
pollini ne viene fortemente disturbato. L’entità dei diversi arricchimenti può
essere molto variabile, sia in termini qualitativi che quantitativi. Quando è
molto consistente, come in tutti i casi di arricchimento terziario dovuti alla
smelatura di favi con celle che contengono o hanno contenuto in precedenza
polline, è riconoscibile per l’elevata quantità assoluta di polline e per
l’elevata percentuale di specie non nettarifere e l’analisi pollinica non è di
nessuna utilità per la determinazione dell’origine botanica. Negli altri casi,
lo spettro primario, quello relativo alle piante che hanno fornito il nettare,
può risultare più o meno mascherato e gli arricchimenti successivi sono una
fonte di imprecisione notevole, soprattutto in quanto non è possibile
distinguere i granuli pollinici derivanti da arricchimento primario e
secondario, a meno che non si tratti di specie notoriamente prive di nettare,
di sicura origine secondaria. Un ricercatore francese (Louveaux, 1958) ha
cercato di stimare l’entità dell’arricchimento secondario, attraverso una
sperimentazione in cui a una colonia di api mantenuta in gabbia di volo veniva
fornito sciroppo zuccherino filtrato e, separatamente, polline di mais. Il
miele ottenuto da questa sperimentazione conteneva 900 granuli pollinici di
mais per grammo; per avere un’idea di quanto l’arricchimento secondario possa
incidere sulla stima dell’origine botanica si pensi che la maggior parte dei
mieli estratti da melario contiene tra 2.000 e 10.000 granuli per grammo,
mentre i mieli di piante a polline iporappresentato (acacia, agrumi,
rododendro) ne possono contenere anche solo 500/g.
Un altro forte elemento di imprecisione deriva dal fatto che
la quantità di polline che marca il nettare al momento della raccolta è
estremamente variabile. Questo ha potuto essere studiato attraverso la
produzione di mieli uniflorali sperimentali, ottenuti da piccole colonie
costrette a raccogliere, in ambienti confinati, su una sola specie. Una
ricercatrice di origine polacca ha dedicato la maggior parte della sua carriera
a questo tipo di studio; tra il 1955 e il 1964 ha studiato 46 specie
nettarifere diverse, ottenendone piccole quantità di mieli uniflorali
sperimentali. Per avere una idea delle differenze nelle quantità di granuli
pollinici che possono marcare i diversi tipi di miele si può far riferimento
alla tabella 1. Tali notevoli differenze sono dovute alla morfologia fiorale e
alle modalità di bottinatura delle api; per esempio, il nettare di tiglio,
appartenente alla seconda classe di rappresentatività, contiene sempre pochi
granuli pollinici in quanto la forma capovolta dei fiori e la posizione dei
nettarî non permettono un consistente arricchimento primario, mentre nel
non-ti-scordar-di-me l’elevata rappresentatività è dovuta alle piccolissime
dimensioni del polline e alla posizione delle antere, nel tubo fiorale, in
posizione superiore rispetto ai nettarî, che l’ape strofina con la ligula,
facendone cadere il polline nel nettare. Per avere un’idea di come la diversa
rappresentatività del polline possa determinare una distorsione dello spettro
pollinico rispetto al contributo in nettare, basta immaginare come può
presentarsi un miele raccolto per metà sulla robinia (che fornisce 112 granuli
pollinici/g) e per metà sulla colza (7.200 granuli pollinici/g): il risultato
sarebbe un miele con solo l’1,5% di polline di robinia e il 98% di polline di
colza. Analogamente un miele, che potremmo considerare pressoché uniflorale, in
quanto ottenuto per l’80% sulla robinia e solo per il 20% sulla colza, avrebbe,
in via teorica, uno spettro pollinico costituito per il 6 % dalla prima specie
e per il 94% dalla seconda.
Secondo le conclusioni di questa paziente ricercatrice,
quindi, per ottenere una stima realistica dell’origine botanica del miele
analizzato, occorre effettuare opportuni calcoli sulla base delle quantità
assolute di polline riscontrato per ogni specie e di coefficienti estrapolati
dai suoi studi. Purtroppo questo metodo non è in pratica utilizzabile: le
piante studiate sono infatti troppo poche e molte di quelle interessanti a
livello commerciale europeo non sono presenti. Inoltre studi successivi,
effettuati con gli stessi sistemi, hanno permesso di verificare che i livelli
di rappresentatività delle diverse piante non sono costanti, in quanto
dipendono anche dalle modalità di elaborazione del miele da parte delle colonie
(intensità del flusso nettarifero, distanza tra sorgente nettarifera ed
alveare, forza della famiglia ecc.). In effetti mieli uniflorali accuratamente
selezionati e campionati secondo particolari procedure, ma ottenuti in
condizioni meno artificiali, con famiglie di forza normale, hanno permesso di
verificare che se le tendenze all’ipo- o iperrappresentatività delle diverse
specie sono sempre confermate, i valori numerici subiscono degli sbalzi anche
di più ordini di grandezza.
In conclusione l’analisi pollinica non può fornire dei
risultati numerici relativamente all’origine botanica di un miele. Il risultato
ottenuto attraverso il conteggio (lo spettro “bruto”, costituito dalle forme
polliniche identificate seguite dalla frequenza relativa) difficilmente
rappresenta lo spettro dei contributi nettariferi e deve essere interpretato da
un melissopalinologo esperto che, sulla base delle informazioni relative alla
rappresentatività delle diverse specie riscontrate e delle caratteristiche
organolettiche e fisico-chimiche del prodotto, fornisce un responso relativo
alla diversa importanza stimata del contributo in nettare di ogni specie.
La definizione
dei mieli uniflorali
Se quindi l’analisi pollinica non permette di valutare con
precisione numerica l’origine di un miele, esiste un sistema in grado di farlo?
Attualmente no. Il sistema ideale consisterebbe nell’identificare, per ogni
possibile origine botanica, uno o più “marcatori”, sostanze cioè che sono
presenti esclusivamente nel nettare delle specie in questione, in quantità
costante e non modificabili dai processi di elaborazione da parte delle api,
estrazione e conservazione. Se nel nettare di una specie è presente una certa
quantità nota di una determinata sostanza e in mieli sperimentali, ottenuti in
serra e in campo, ne è presente una quantità correlata, il miele puro all’80%
ne conterrà l’80%, un miele puro solo al 50%, il 50% e così via. Alcuni
marcatori sono già stati identificati, soprattutto nell’ambito delle sostanze
aromatiche e di altri componenti minori (flavonoidi); questi metodi però non
sono ancora entrati nella pratica routinaria, in quanto spesso si tratta di
analisi che richiedono attrezzature particolari o molto costose e i dati
disponibili non permettono ancora di generalizzare queste pratiche. E’
probabile tuttavia che questo tipo di metodiche si renda disponibile in un
prossimo futuro: anche se questo permetterà di identificare con precisione il
livello di purezza di ogni miele proposto come uniflorale, non è detto che
questi sistemi, da soli, permettano di risolvere il problema. In questo caso
infatti potremo selezionare mieli con lo stesso livello di purezza, ma ci
troveremmo, probabilmente, di fronte a prodotti anche molto diversi tra di
loro, a seconda della natura dei nettari di accompagnamento. Per esempio una
piccola presenza di un nettare aromatico come quello del fieno greco (una
leguminosa foraggiera dal forte odore di curry, liquirizia, elicriso) è in
grado di denaturare le caratteristiche organolettiche di mieli pressoché puri
di agrumi o di rosmarino, mentre una presenza anche consistente di nettare di
altre leguminose più neutre (sulla, trifoglio, ginestrino) negli stessi mieli è
del tutto tollerabile, in quanto non percepibile. Il problema, quindi, se
vogliamo guardarlo dalla parte del consumatore, e nell’unica maniera in cui
oggi possiamo affrontarlo, non sta nel definire una percentuale minima di
origine, quanto nel precisare dei limiti di composizione e di caratteristiche
che facciano sì che quando il consumatore compra un vasetto di miele di
robinia, per esempio, trovi sì un miele prodotto principalmente sulle fioriture
di robinia, ma soprattutto un miele costante da una volta all’altra, con un
certo colore, un certo aspetto fisico, un certo odore e un certo sapore.
Per definire ogni miele uniflorale è necessario quindi
studiare numerosi campioni di miele dell’origine in questione, prelevati in
base alle dichiarazioni dei produttori, provenienti da diverse zone e
rappresentativi di diverse annate. Su questi campioni vengono eseguite le
analisi considerate maggiormente caratterizzanti e quindi, con l’impiego di
sistemi statistici, si selezionano gruppi di campioni omogenei. Ne uscirà
quindi un profilo standard per ogni tipologia studiata: per esempio il miele di
robinia è un prodotto caratterizzato, a livello organolettico, da un colore
molto chiaro, uno stato fisico generalmente liquido, un odore molto leggero e
un sapore molto delicato, decisamente dolce e leggermente vanigliato. A livello
microscopico si caratterizza come miele iporappresentato, con una quantità
totale di granuli pollinici inferiore a 2.000/g e una percentuale di polline di
Robinia, generalmente bassa, ma
comunque superiore a 10-15%, con una discreta presenza di piante prive di
nettare. A livello fisico-chimico presenta un comportamento peculiare per i
valori di colore, conducibilità elettrica, indice diastasico, acidità, che
risultano piuttosto bassi, e una composizione zuccherina particolare, con
contenuto elevato di fruttosio e ridotto di glucosio. Il controllo dell’origine
botanica si basa quindi sul confronto tra i dati ottenuti sul miele da valutare
e il profilo descritto: se c’è coincidenza il miele può essere definito
uniflorale, se il prodotto se ne discosta sensibilmente, no, indipendentemente
dalle reali proporzioni d’origine, che comunque non possiamo conoscere.
Al momento attuale i mieli uniflorali italiani
caratterizzati sono 14 e per alcuni altri lo studio è in corso. Questo lavoro è
stato svolto dall’Istituto Nazionale di Apicoltura di Bologna e dalla Sez.
Operativa di Apicoltura di Roma dell’Istituto Sperimentale per la Zoologia
Agraria e non ha equivalenti negli altri paesi europei: almeno in questo campo
siamo all’avanguardia. I profili dei mieli uniflorali sono presentati sotto
forma di schede di caratterizzazione, che sono state pubblicate sulle riviste
scientifiche da tempo (nel 1986, il primo gruppo di 12 schede) e dovevano
costituire il nucleo principale dei decreti applicativi.
Possiamo quindi iniziare a rispondere a una parte delle
domande che ci eravamo posti all’inizio. Da quanto esposto sui limiti
dell’analisi pollinica e sugli altri sistemi di analisi relativi alla
determinazione dell’origine botanica risulta chiaro che il problema
dell’unifloralità non può essere posto nei termini di definizione di una
percentuale minima di provenienza: non ha quindi senso interrogarsi rispetto al
significato numerico di quel “soprattutto”, né definire percentuali minime
d’origine. Il controllo non può essere fatto che attraverso il controllo della
rispondenza alle caratteristiche organolettiche, fisico-chimiche e
microscopiche standard. Queste sono riportate dalla letteratura scientifica e
tecnica (per esempio nelle pagine di Lapis dedicate alla flora apistica e nel
libro dell’Istituto Nazionale di Apicoltura “Conoscere il miele - Guida
all’analisi sensoriale”) ma, per il momento, non sono state introdotte nella
legislazione.
In quanto ai controlli relativi all’origine botanica da eseguire
per non rischiare di commercializzare miele che non rientra nei parametri
previsti, gli apicoltori possono tranquillizzarsi. I parametri previsti sono
utili a chi debba verificare, su un prodotto incognito, la veridicità della
denominazione botanica, ma non c’è motivo di pensare che il miele che è stato
raccolto su una certa fioritura e che presenta determinate caratteristiche di
aspetto, odore e sapore che corrispondono a quelle note per quell’origine, non
rientri nei limiti anche per le caratteristiche fisico-chimiche e microscopiche
che possono essere misurate solo in laboratorio. Sui mieli abituali e
conosciuti, quindi, non c’è necessità di alcun controllo aggiuntivo, al di
fuori della verifica organolettica, che il produttore può fare in proprio.
Quando invece il risultato della smelatura è diverso dall’atteso, l’acacia è
troppo scura o saporita, il castagno comincia a cristallizzare due mesi dopo la
produzione o l’agrumi ha il colore del girasole, è necessario verificare se il
prodotto, visibilmente meno puro della norma, rientra o meno negli standard
previsti; anche in questo caso non è necessario controllare tutti i parametri,
ma solo quelli maggiormente caratterizzanti, secondo il suggerimento del
laboratorio al quale ci si rivolge. Spesso non è necessario neppure eseguire
un’analisi pollinica: basta la determinazione del colore o della conducibilità
elettrica per dire se il prodotto è fuori o dentro dai limiti. Le analisi sono
inoltre necessarie nel caso di produzioni nuove o insolite, per le quali non si
abbia abbastanza esperienza per giudicare il miele solo attraverso le
caratteristiche organolettiche. L’errore nella valutazione di un prodotto nuovo
è relativamente comune: una coltura nuova nel campo del vicino, un’insolita
fioritura di una pianta spontanea dovuta ad un andamento stagionale anomalo, un
miele un po’ diverso dal solito e nascono etichette che non hanno un riscontro
nell’origine reale del prodotto.
Denominazioni
di fantasia ed errori di valutazione
Nel campo delle denominazioni relative all’origine botanica
regna la confusione assoluta: colpa di una legge incompleta per la mancata
emanazione dei decreti applicativi. Nonché della solita difficoltà sull’estrema
specializzazione necessaria ad eseguire correttamente controlli sull’origine
botanica del miele: quanti sono in Italia gli specialisti in grado di
effettuare le analisi necessarie e di interpretarle come si deve? Possiamo a
questo punto emettere un parere sul primo dubbio che avevamo esposto, quello
relativo alla necessità o meno di un decreto applicativo: una qualche forma di
completamento (decreto applicativo o anche solo una circolare esplicativa) è
indispensabile, tanto più che il sistema di controllo delle denominazioni
botaniche non è semplice ma richiede numerose analisi (e tra queste due,
l’organolettica e la melissopalinologica sono estremamente specifiche) e una
valutazione dei risultati che non è di tipo automatico, ma interpretativo. Il
decreto quindi, oltre a definire metodiche e criteri di definizione degli uniflorali,
dovrebbe anche istituire, come in effetti era stato previsto, gli albi degli
esperti in grado di esprimere pareri sull’origine del miele (Albo degli esperti
in analisi sensoriale del miele e dei melissopalinologi). In assenza del
decreto applicativo non è possibile tutelare efficacemente le denominazioni
botaniche. Dal rigore e dalla chiarezza gli onesti non possono che trarre
vantaggi: una definizione maggiore dei mieli uniflorali può costringere a
qualche controllo in più, ma permette anche di combattere efficacemente la
concorrenza sleale di chi inventa denominazioni a proprio beneficio. L’attuale
situazione invece favorisce gli abusi e tende a livellare la qualità, per
quello che riguarda la rispondenza alle denominazioni botaniche, verso il basso,
in quanto non si è stimolati, in una situazione in cui le denominazioni possono
anche essere inventate di sana pianta, a preoccuparsi per una rispondenza agli
standard non perfetta.
Anche riguardo a che cosa si debba intendere come
“indicazione inerente all’origine vegetale o floreale” il decreto applicativo
dovrebbe portare qualche chiarimento. Attualmente si va dall’interpretazione
più restrittiva, che considera ammissibili solo le indicazioni botaniche
uniflorali, con la sola eccezione della denominazione “millefiori”, fino alla
tolleranza totale. Anche questo è un argomento di discussione perenne tra
coloro che vorrebbero poter valorizzare il proprio prodotto e chi invece deve
tutelare il consumatore dagli abusi. Nell’attesa di un chiarimento conviene
limitarsi alle indicazioni uniflorali o geografiche, fornendo le altre
indicazioni che si ritengono valorizzanti per il prodotto nei testi descrittivi
che possono comparire sull’etichetta o nel materiale promozionale: per esempio
un miele di castagno e tiglio può essere valorizzato vendendolo con una
indicazione di provenienza territoriale e spiegando, nella retroetichetta, che
il suo colore ambrato, il forte aroma mentolato e il fondo amarognolo derivano
dalla contemporanea presenza nei boschi di origine di castagno e tiglio. Al di
là di quanto è espressamente consentito dalla legislazione sul miele, il
criterio di valutazione della correttezza o meno di una presentazione è quello
della trasparenza (non deve indurre in errore l’acquirente sulle caratteristiche
del prodotto), preso in prestito dalla legislazione generale sull’etichettatura
dei prodotti alimentari (D. L. 109/92), unito ai concetti di veridicità e
verificabilità da parte di terzi. Indicare quindi che un miele è di “alta
montagna” può essere vero e, perlomeno in alcune situazioni, trasparente, anche
se al momento non è facilmente verificabile, in quanto il miele di alta
montagna non è ancora stata definito in documenti che abbiano valore ufficiale
o perlomeno scientificamente riconosciuto. Non è però trasparente l’etichetta
di un miele prodotto sul Gran Sasso, etichettato come di “alta montagna”, ma
venduto sulle Dolomiti da una azienda locale. Come non è trasparente
l’indicazione “ACACIA e altri fiori primaverili” (con le parole che seguono il nome
della specie in caratteri molto più piccoli), in quanto viene letta come
indicazione uniflorale, mentre il significato è un altro; né può essere visto
come un tentativo di informare più correttamente il consumatore, in quanto già
la definizione legale delle denominazioni botaniche introduce il concetto di
prevalenza. Ed è veritiera e trasparente la denominazione “millefiori”, quando
viene usata per mieli uniflorali che commercializzati con la reale indicazione
di origine (colza o girasole, per esempio) ne verrebbero svantaggiati?
Fatto sta che, in assenza di chiarezza e controlli, le
denominazioni fantasiose, basate sull’attrattiva che hanno sul consumatore, più
che sulla veridicità, trasparenza e verificabilità, abbondano. Soprattutto nei
negozi specializzati (specializzati in cosa, ci si domanda); questi punti
vendita hanno una clientela che è sempre alla caccia di prodotti particolari,
esclusivi, che è disposta a pagare cifre notevolmente superiori alla media. Si
possono trovare diverse tipologie di denominazioni contestabili: le indicazioni
sibilline, quali “miele di prateria”, “di bosco”, “di montagna”, sono sempre
veritiere, se si considera come prateria qualunque superficie con piante
erbacee, bosco anche la fila di alberi e arbusti che fiancheggia la ferrovia e
montagna qualsiasi rilievo, in qualsiasi parte del mondo, che superi i 500 m
s.l.m.. Meno comuni sono le denominazioni uniflorali di fantasia, relative a
piante non o scarsamente nettarifere (mieli di achillea, di rosa, di
albicocco); accanto a queste, si possono trovare denominazioni altamente
improbabili in quanto la pianta citata molto raramente ha una copertura
sufficiente e non si sovrappone ad altre fioriture (mieli di melone, di
biancospino, di mirto, di epilobio, di meliloto, di rovo). Infine, di frequente
si trovano denominazioni relativamente banali, utilizzate però per partite di
miele che non rispondono, o rispondono solo in parte, alla definizione delle
schede di caratterizzazione. E una menzione particolare meritano certi mieli molto
aromatici e molto pregiati (corbezzolo, marasca del Carso, timo) che vengono
spesso espressamente “diluiti” con mieli neutri e di minor valore commerciale
con la scusa che il consumatore non li accetterebbe, se commercializzati puri.
Al di fuori di quest’ultimo caso, in cui la premeditazione è evidente, spesso è
impossibile sapere se le denominazioni non corrette sono usate in buona fede o
intenzionalmente. Si può comunque frequentemente intuire una sostanziale
sottovalutazione del problema: chi froda in questo campo probabilmente non si
rende conto di ingannare il consumatore sulla reale natura del prodotto, ma
crede forse di usare un’arma lecita nella libera commercializzazione. E’ una
scusante?
Tabella
1: numero di granuli pollinici per grammo di miele per alcuni dei mieli
uniflorali sperimentali studiati da Z. Demianowicz tra il 1955 e il 1964
Numero della
classe |
Numero di
granuli pollinici per grammo di miele |
Coefficiente
della classe |
Piante
studiate |
0 |
0-74 |
32 |
Asclepias syriaca |
1 |
75-150 |
112,5 |
Cucumis sativus, Robinia
pseudacacia |
2 |
151-300 |
225 |
Althaea officinalis, Borago
officinalis, Centaurea jacea, Echinops commutatum, Helianthus sp. Hyssopus
officinalis, Salvia nemorosa, Scrophularia nodosa, Tilia cordata |
3 |
301-600 |
450 |
Anchusa officinalis, Lamium
album, Ribes vulgare, Salvia officinalis |
4 |
601-1.200 |
900 |
Allium cepa, Centaurea cyanus,
Geranium pratense, Polemonium coeruleum, Sinapis alba, Solidago serotina |
5 |
1.201-2.400 |
1.800 |
Digitalis purpurea, Leonorus
cardiaca, Malus domestica, Onobrychis viciaefolia, Taraxacum officinalis,
Trifolium repens |
6 |
2.401-4.800 |
3.600 |
Coriandrum sativum, Echium
vulgare, Marrubium vulgare, Ruta graveolens, Fagopyrum sagittatum |
7 |
4.801-9.600 |
7.200 |
Brassica napus, Melilotus alba,
Phacelia tanacetifolia, Rubus idaeus |
8 |
9.601-19.200 |
14.400 |
Lythrum salicaria |
9 |
19.201-38.400 |
28.800 |
Archangelica officinalis, Lotus
corniculatus, Reseda lutea, Reseda luteola |
10 |
38.401-76.800 |
57.600 |
|
11 |
76.801-153.600 |
115.200 |
|
12 |
153.601-307.200 |
230.400 |
|
13 |
307.201-614.400 |
460.800 |
Cynoglossum officinalis |
14 |
614.401-1.228.800 |
921.600 |
|
15 |
1.228.801-2.457.600 |
1.843.200 |
|
16 |
2.457.601-4.915.200 |
3.686.400 |
|
17 |
4.915.201-9.830.400 |
7.372.800 |
|
18 |
9.830.401-19.660.800 |
14.745.600 |
Myosotis silvatica |