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da Forse che sì forse che no
dal libro I, pp. 30-60 della prima
edizione (Treves, Milano 1910)
[La scena è ambientata
nel Palazzo Ducale di Mantova, visitato dai protagonisti del romanzo: l’aviatore
Paolo Tarsis, la sua amante Isabella Inghirami e i giovanissimi fratelli
di lei, Vana e Aldo. (I tre fratelli inscenano la finzione che la sorella
maggiore sia la reincarnazione di Isabella d’Este Gonzaga, la celebre abitatrice
del palazzo nel primo Cinquecento).]
pp. 30-2
[…] egli le aveva preso con le dita il mento e con le labbra il fiato,
il più profondo fiato, quello che sanno le vene i sogni i pensieri.
Allora furono due creature che allucinate
e riarse per un deserto di mobili dune giungono col medesimo anelito alla
cisterna occulta e insieme vi discendono, vi si precipitano, si protendono
verso l’acqua che non vedono, nell’angustia si urtano, si dibattono; e
ciascuna vuol bere prima e di più, e sente dietro le sue labbra
molli crescere la rabbia mordace, e l’ombra e l’acqua e il sangue sono
al suo delirio un solo sapore notturno.
[…] E la vicenda, si fece cruda come
una lotta di feritori; ché l’una e l’altro cercavano giungere qualcosa
d’ancor più vivo e segreto, i precordii, gli spiriti balzanti dell’intima
vita. Ed entrambi sentivano la durezza dei denti nelle gencive che sanguinavano.
E arrossato da una sola piccola goccia era tutto il fiume carnale che fluiva
sul mondo.
[…]
pp. 34-5
[Aldo chiede a Isabella:]
- Che hai nei denti?
- Che ho?
Ella serrò la bocca e di sotto fece scorrere su i denti rapida
la lingua.
- Anche nel labbro.
- Che ho?
- Un po’ di sangue.
- Sangue?
Ella cercava il fazzoletto; e si traeva indietro
con moti quasi coperti, chinando sotto le ali ferrugigne il viso ch’ella
credeva di fiamma. Con una tenerezza accigliata ch’era una crudeltà
inconsapevole, il fratello insisteva da presso; stendeva la mano verso
di lei; le prendeva tra il pollice e l’indice il labbro inferiore; diceva:
- Hai un piccolo taglio.
Involontariamente Paolo si volse dall’altra parte, […].
- Ah sì, forse, quando son caduta,
dianzi laggiù, mettendo il piede in una buca dell’ammattonato…
Ed ella cercava il fazzoletto per coprirsi
la bocca come se le fosse tutta una ferita cocente.
- Tieni – disse Vana porgendole il suo.
[…]
pp. 39-41
[…]
- Quando io vivevo – disse piano l’incantatrice, col volto
quasi vaporato dalla squisitezza del
sorriso – il mio giardino era pieno di pecchie
e di camaleonti.
Un’ape entrò, sonora. Gli occhi dell’adolescente
la seguirono con una meraviglia che rese straordinario il volo. Tutt’e
quattro, raccolti nello strombo della finestra, ascoltarono il lungo errante
ronzio. Poi si guardarono tra loro fuggevolmente, e videro che tutt’e quattro
avevano gli occhi chiari ma diversi, attoniti come se questa simiglianza
dissimile scoprissero per la prima volta.
- Ah come sapevo vivere! – soggiunse Isabella affascinata dal suo gioco
stesso. – Nelle mie piccole stanze, sul margine dei miei stagni pigri,
possedevo i sogni delle città famose. […]
[…]
- Isa, Isa, - sospirava l’adolescente – perché non siamo stanotte
nella vecchia Algeri, […].
- Taci, taci – ella disse con l’indice
su la bocca, avanzandosi lievemente verso l’altra soglia. – Ascolta l’ape.
L’artefice studiosa era passata nella saletta contigua;
e il bombo pareva cambiar tono, farsi più sonoro, come moltiplicato
da una tavola armonica, simulando il vibrare della corda bassa.
- Ascolta, che musica!
- Suona la viola bordona – disse
Aldo, sommesso, appressandosi in punta di piedi, tratto dall’istinto mimico
dell’adorazione a imitare i modi della sorella.
Si sporse dalla soglia l’incantatrice, poggiando
le mani all’uno e all’altro stipite; guardò intorno, guardò
in alto; poi senza parlare volse la faccia irradiata dal riflesso del tesoro
scoperto. E tutti gli occhi chiari intorno ricevettero il grande bagliore.
Entravano nella cassa dorata d’un clavicembalo?
entravano in una teca votiva lavorata dal principe degli orafi per custodire
gli avorii miracolosi dell’arpa di Santa Cecilia? Il bombo dell’ape era
come la vibrazione della corda sotto la penna di corvo in una cadenza allungata;
ma il silenzio era come il silenzio che vive dentro i reliquiarii.
- Isabella! Isabella! – ripeteva l’adolescente,
abbagliato, leggendo per ovunque il nome della divina Estense.
[…]
pp. 47-8
[…]
- Bisogna dunque andare? – disse Isabella.
E rimirò la filigrana del soffitto,
ove ancora l’ape dimenticata bombiva come lungh’esse le cellette dell’alveare.
[…]
pp. 51-2
[…]
- Aldo, Aldo, scacciala!
Ella si raddrizzò, si schermì,
sentendo il ronzio dell’ape presso la sua gota. Con un balzo varcò
la soglia; e i suoi piccoli gridi sonavano sotto il cielo d’oro, ché
l’ape la perseguitava importuna; e le sue mani s’agitavano alla difesa
puerile.
- Ahi! M’ha punta!
In uno di quei gesti scomposti la pecchiaprovocata
l’aveva punta alla mano manca, nel polpaccio del pollice.
- Mi fa male! Bisogna suggere forte, Aldo!
Aldo non rideva più. Ella gli tendeva
la mano supina, ed egli
pose le labbra su la puntura per medicarla.
- Sì, così.
Egli suggeva più forte.
- Basta!
Ella rideva d’un riso che a Paolo sconvolto
pareva l’eco attenuata di quello già udito lungo il canale delle
ninfee […].
- Basta. Non mi duole quasi più. Mi brucia un poco soltanto.
[…]
pp. 59-60
[…]
- Isa, le tue mani sono di perfetto marmo!
Meravigliose erano le due mani ignude su la
ruggine della ringhiera, levigate nei nodelli, marmoree veramente, come
abbandonate dalla vita sanguigna e trasfigurate da un’arte sublime. Ella
era una creatura tutta palpitante e anelante di tristezza, di desiderio,
di ricordanza, di timore, di promessa, con due mani di statua.
- La puntura ti duole ancora?
- Mi brucia soltanto.
- Ti sei ferita due volte. Aspèttati la terza ferita.
La mano di marmo disegnò un gesto di
supplice verso la bellezza della candida sera; poi col dorso appena appena
toccò il labbro che non sanguinava più. Il saettìo
disperato delle rondini stridì su l’immobile argento. Il capo del
fratello s’inclinò verso la spalla diletta. Egli aspettava un dono
che non gli era dato, e non sapeva quale; e la voce della sua anima era
un alto lamento, se bene si esalasse in piccole parole.
[…]
dal libro II, pp. 272-5
[Paolo e Isabella in una villa
dell’entroterra versiliese]
[…]
Seduto su i cuscini, addossato al muro bianco, fisso
come a un’allucinazione dei suoi propri sensi, l’amante mirava la danzatrice
in un rapimento senza termine. Dietro di lei, tra i rami degli oleandri,
egli vedeva lo sfondo delle coste falcate, le rive pinose della Versilia
e della terra di Luni, le Alpi di Carrara così aeree che figuravano
anch’esse una figura di danza, una catena di alte vergini, forse inchinate
verso l’Oriente dal ritmo del coro.
[…]
Ma, quando i suoi occhi dati alle cose si
riaffisarono in quelli che la miravano, ella cangiò i suoi modi.
Raccolse a un tratto i suoi larghi gesti orizontali; mostrò d’esser
ferita dallo sguardo dell’uomo. […] Ella imitava con la danza il gioco
stesso della sua perfidia: la lusinga, l’offerta, il rifiuto, la disfida,
la lotta, la paura temeraria, il sospiro nella violenza, l’annientamento
nel piacere.
- L’ape ! – disse all’improvviso con un piccolo
grido, schermendosi, come aveva fatto dinanzi alla porta di marmo nel Paradiso
mantovano.
Il ricordo si drizzò vivo agli occhi
dell’affascinato. Ella imitava con la sua danza lo spavento puerile, i
guizzi, i balzi, le fughe, le difese, come se il pungolo dell’importuna
la perseguitasse e la minacciasse ancora. La zona si curvava in arco sul
capo, svolazzava, strascicava, ora floscia, ora gonfia, ora distesa.
- Ahi! Ahi!
- Ella gemette, s’arrestò,
[…]. Il primo gemito fu di dolore, ma l’altro imitò quello ch’ella
soleva quando il suo amico posava su lei la mano del possesso ed ella sentiva
spandersi in tutte le vene il languore senza scampo. […].
- Ahi!
Egli tremò di desiderio; ché
quel gemito era il noto richiamo, triste e selvaggio. Ella scivolò
contro di lui nei cuscini. E gemeva:
- M’ha punta qui.
E le labbra dell’amato la medicavano.
E ogni volta gemeva:
- M’ha punta qui, e poi qui, e anche qui.
E ogni volta le labbra la medicavano. […]
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