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dall’ Aminta
Atto I, scena II, vv.350-448
A l'ombra d'un bel faggio Silvia
e Filli
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sedean un giorno ed io con loro insieme,
quando un'ape ingegnosa che cogliendo
se'n giva il mel per que' prati fioriti,
a le guance di Fillide volando,
a le guance vermiglie come rosa,
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le morse e le rimorse avidamente:
ch'a la similitudine ingannata
forse un fior le credette. Allora Filli
cominciò lamentarsi, impaziente
de l'acuta puntura:
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ma la mia bella Silvia: - Taci,
taci, non ti lagnar, Filli: perch'io
con parole d'incanti leverotti
il dolor della picciola ferita.
A me insegnò già questo secreto
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la saggia Aresia, e n'ebbe per mercede
quel mio corno d'avolio ornato d'oro. -
Così dicendo, avvicinò
le labbra
de la sua bella
e dolcissima bocca
a la guancia rimorsa, e con soave
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susurro mormorò non so che versi.
Oh mirabili effetti! sentì tosto
cessar la doglia: o fosse la virtute
di que'magici detti o, com'io credo,
la virtù de la bocca
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che sana ciò che tocca.
Io che sino a quel punto altro non volsi
che'l soave splendor de gli occhi belli,
e le dolci parole, assai più dolci
che'l mormorar d'un lento fiumicello
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che rompa 'l corso fra minuti sassi
o che'l garrir de l'aura in fra le frondi,
allor sentii ne'l cor novo desire
d'appressare a la sua questa mia bocca:
e fatto, non so come, astuto e scaltro
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più che l'usato (guarda quanto Amore
aguzza l'intelletto!), mi sovvenne
d'un inganno gentile co'l qual io
recar potessi a fine il mio talento;
chè fingendo ch'un'ape avesse morso
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il mio labro di sotto, incominciai
a lamentarmi di cotal maniera
che quella medicina che la lingua
non richiedeva il volto richiedeva.
La semplicetta Silvia,
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pietosa del mio male,
s'offrì di dar aita
a la finta ferita, ahi lasso!, e fece
più cupa e più mortale
la mia piaga verace,
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quando le labra sue
giunse a le labra mie.
Né l'api d'alcun fiore
còglion sì dolce il mel ch'allor io colsi
da quelle fresche rose;
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se ben gli ardenti baci
che spingeva il desire a inumidirsi,
raffrenò la temenza
e la vergogna, o felli
più lenti e meno audaci.
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Ma mentre al cor scendeva
quella dolcezza mista
d'un secreto veleno,
tal diletto n'avea
che, fingendo ch'ancor non mi passasse
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il dolor di quel morso,
fei sì ch'ella più volte
vi replicò l'incanto.
Da indi in qua andò in guisa crescendo
il desire e l'affanno impaziente
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che non potendo più capir ne'l petto,
fu forza che scoppiasse: ed una volta
che in cerchio sedevam ninfe e pastori
e facevamo alcuni nostri giuochi,
che ciascun ne l'orecchio del vicino
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mormorando diceva un suo secreto,
- Silvia, - le dissi - io per te ardo, e certo
morrò, se non m'aiti. - A quel parlare
chinò ella il bel volto e fuor le venne
un improvviso insolito rossore
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che diede segno di vergogna e d'ira:
né ebbi altra risposta che un silenzio,
un silenzio turbato e pien di dure
minacce. Indi si tolse e più non volle
né vedermi né udirmi. E già tre volte
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ha il nudo mietitor tronche le spighe
ed altre tante il verno ha scosso i boschi
de le lor verdi chiome: ed ogni cosa
tentata ho per placarla, fuor che morte.
Mi resta sol che per placarla io mora:
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e morrò volentier, pur ch'io sia certo
ch'ella o se ne compiaccia o se ne doglia;
né so di tai due cose qual più brami.
Ben fora la pietà premio maggiore
a la mia fede e maggior ricompensa
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a la mia morte, ma bramar non deggio
cosa che turbi il bel lume sereno
a gli occhi cari e affanni quel bel petto.
Atto II, Scena I, vv. 1-31
Satiro:
Picciola è l’ape, e fa co ’l picciol morso
pur gravi e pur moleste le ferite;
ma qual cosa è più picciola d’Amore,
se in ogni breve spazio entra, e s’asconde
in ogni breve spazio? Or sotto a l’ombra
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de le palpebre, or tra’ minuti rivi
d’un biondo crine, or dentro le pozzette
che forma un dolce riso in bella guancia:
e pur fa tanto grandi e sì mortali
e così immedicabili le piaghe.
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Oimè! che tutte piaghe e tutte sangue
son le viscere mie, e mille spiedi
ha ne gli occhi di Silvia il crudo Amore.
Crudele Amor! Silvia crudele ed empia
più che le selve! Oh come a te confassi
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tal nome e quanto vide chi te’l pose!
Celan le selve angui, leoni ed orsi
dentro il lor verde; e tu dentro a ‘l bel petto
nascondi odio, disdegno ed impietate,
fere peggior ch’angui, leoni ed orsi:
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ché si placano quei, questi placarsi
non possono per prego né per dono.
Oimè! quand’io ti porto i fior novelli,
tu li ricusi, ritrosetta, forse
perché fior via più belli hai ne ’l bel volto.
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Oimè! quando ti porgo i vaghi pomi,
tu li rifiuti, disdegnosa, forse
perché pomi più vaghi hai ne ’l bel seno.
Lasso! quand’io t’offrisco il dolce mele,
tu lo disprezzi, dispettosa, forse
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perché mel via più dolce hai ne le labra. |
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