“Il Conciliatore”
La più importante rivista
del movimento romantico italiano. Finanziata dal conte Luigi Porro Lambertenghi,
ebbe tra i suoi collaboratori Giovanni Berchet, Federico Confalonieri,
Ludovico Di Breme, Silvio Pellico, Ermes Visconti. Uscì a Milano,
con periodicità bisettimanale, negli anni 1818-’19; dopo vari problemi
di censura, fu definitivamente soppressa dal governo austriaco.
Nel 1705 a Londra apparve la
prima edizione (col titolo L’alveare scontento, ovvero i furfanti resi
onesti) di un’opera capitale nella storia del pensiero politico moderno,
che dopo successive riedizioni accresciute sarebbe divenuta famosa come
La
favola delle api, ovvero vizi privati e pubblici
benefici. Vi è narrato l’apologo di un alveare ricco
e prospero finchè i comportamenti dei suoi abitanti sono improntati
all’egoismo ed alla corruzione, che decade rapidamente e miseramente in
seguito alla perdita di ogni spirito d’iniziativa, dovuta all’introduzione
delle virtù morali.
Ne era autore, in lingua inglese,
il medico olandese (di famiglia originaria della Francia) Bernard de Mandeville
(1670-1733).
Dal n. 20, domenica 8 novembre
1818, del “Conciliatore” si riproducono i paragrafi iniziali e quello finale
della traduzione della Favola del Mandeville, firmata con
la sigla PDR, che potrebbe indicare il giurista e uomo politico carrarese
Pellegrino de’ Rossi (Carrara 1787-Roma 1848), rimasto ucciso durante i
tumulti del ’48. Si riproduce anche il primo paragrafo del commento del
traduttore.
Osservazioni morali sulla favola delle Api.
Niuno si avvisò forse di fare del vizio più
solenne apoteosi, quanto il Mandeville nella celebre sua favola delle Api.
Non dispiacerà ai nostri leggitori che riproduciamo dopo molti anni
un così originale documento di filosofico delirio col solo fine
di fare qualche breve osservazione sopra una dottrina funesta alla morale
dei popoli. Ecco la favola in compendiata traduzione.
Favola delle api, ovvero i furfanti divenuti
onesti.
Un numeroso sciame di api, celebre per le imprese delle
armi e per le sue instituzioni, abitava uno spazioso alveare. Era governato
dai suoi re, ma felicemente il loro potere era circoscritto da savie leggi.
Milioni di esse lavoravano a soddisfare la vanità
e l’ambizione di altre api con quanto di più maraviglioso hanno
inventato e perfezionato gli uomini nelle arti e nelle scienze.
Alcune però facevano grandi guadagni con poca fatica,
altre condannate alla falce ed all’aratro traevano una infelice sussistenza.
Altre si davano ad impieghi misteriosi che non esigevano né studio,
né ingegno. […]
[…] Il contentamento, questa peste dell’industria,
rende paghe le api della loro frugalità.
Egli è perciò che l’alveare, rimasto quasi
deserto, non poteva più difendersi contro gli attacchi de’ suoi
nemici, cento volte più numerosi. Le api si difesero alla prima
con gran valore, finché trovarono una ritirata ben fortificata.
Risolvettero di stabilirvisi, decise di vincere o di morire. La vittoria
coronò alla fine il loro coraggio e la loro fedeltà. Ma questo
trionfo costò ad esse ben caro. Molte migliaia di quelle valorose
api perirono; il resto dello sciame che si era indurito alla fatica e al
travaglio, temendo che la pace potesse corrompere i costumi, e volendo
evitare di ricadere negli antichi vizj volò nel tenebroso e ignobile
tronco di un albero, e così non restò a quella famosa repubblica
dell’antica felicità e grandezza, se non il contentamento e l’onestà.
Il filosofo olandese fece con questa favola una viva pittura
dello stato, nel quale pur troppo si trovano le umane società. Ma
che esse non possano ordinarsi altrimenti, e che anzi non possano esser
felici senza delitti, senza inganni e senza vizj, ella è questa
una conclusione assai stravagante. Il vizio non può essere elemento
di felicità, perché questa si fonda sulla morale, e non vi
è morale senza virtù.
[…]
***
Dalla traduzione di Giovanni
Berchet della novella drammatica indiana Sacontala, pubblicata sul
n. 55, giovedì 11 marzo 1819
dall’ Atto I, 13-5
Un’ape […] ronza intorno al volto di Sacontala. La vergine coll’agitar
della mano tenta di togliersi d’innanzi quell’insetto importuno. Dushmanta
osserva l’industria ingenua di Sacontala; e fa confronto tra la grazia
de’ movimenti di lei e le studiate maniere delle donne della sua corte.
Quanta maggior venustà in Sacontala! “Fortunata ape!” (esclama egli).
“Tu tocchi la coda di quel bell’occhio tremante; tu ti accosti al
lembo di quell’orecchio; tu vi sussurri dolcemente come se bisbigliassi
un segreto d’amore; e mentre ch’ella agita la leggiadra sua mano, tu voli
a sugger miele da que’ labbri che contengono il tesoro d’ogni diletto.
Io qui fra dubbj miei mi consumo dal desiderio di sapere di qual famiglia
ella nasca; e tu intanto, fortunata
ape, ti vai godendo un piacere che per me sarebbe la suprema delle
venture”.
Sacontala si volge alle compagne perché la soccorrano a liberarsi
dell’ape. “Noi nol possiamo” (rispondono). “Dushmanta solo può liberarti.
Egli solo è il protettore di questo santuario”. All’udirsi nominare,
Dushmanta vorrebbe uscire del nascondiglio e palesarsi. Ma pensato alcun
poco, mette freno al suo desiderio. “Meglio è ch’io venga innanzi
a lei non come re, ma come semplice straniero che cerca ospitalità”:
L’ape non cessa di ronzare. Sacontala procura di scansarla fuggendo
lontano alcuni passi; ma perseguitata tuttavia, grida: “Soccorso, soccorso!
Chi mi salva da questa sciagura?”. Dushmanta non sa più contenersi;
e sbalzando fuor dell’albereto si presenta alle donne. Sparita l’ape, Anusuya
e Priyamvada usano a lui le accoglienze prescritte dall’ospitalità,
gli offrono frutti e fiori e lavacri pe’ suoi piedi, e molli foglie di
Septaperna su cui riposarsi. […]
dall’ Atto VI, 88
La ragione del re è perturbata da un delirio. Ogni oggetto che
gli cade sotto l’occhio gli richiama alla mente la crudele ripulsa data
a Sacontala. Il rimorso è immenso. Il cordoglio gli opprime l’anima.
Vede un’ape dipinta sul quadro; ha paura che indiscreta voli sulla bocca
a Sacontala; dà nelle smanie, e parla all’ape, e la minaccia affinchè
non osi contaminare le labbra della donna bella. Madhavuya rammenta al
re che quell’ape non è viva, e ch’altro non è ch’una pittura.
[…]
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